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Introduzione a «Un’economia permanente degli armamenti» di Michael Kidron

Stathis Kouvélakis

Dopo l’elezione di Donald Trump e le decisioni dell’Unione Europea sul piano “ReArm Europe”, il dibattito sull’industria bellica ha preso una nuova piega. In questo contesto, Contretemps propone di (ri)scoprire l’autore e militante marxista britannico Michael Kidron, specialista dei legami tra economia e guerra. Ringraziamo Contretemps per questo importante lavoro di traduzione e divulgazione che riprendiamo sul nostro sito in tre parti: 1. la presentazione introduttiva di Michael Kidron a cura Stathis Kouvelakis, membro della redazione di Contretemps; 2. la traduzione dell’articolo Un’economia permanente degli armamenti di Kidron; 3. un approfondimento di questa teoria e del dibattito che ha scatenato scritto dal teorico marxista e attivista britannico Alex Callinicos.
Si tratta di un nostro ulteriore contributo al dibattito dopo la pubblicazione sul keynesismo militare di Michael Roberts.

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L’analisi approfondita dell’economia di guerra e del suo ruolo nel capitalismo contemporaneo è resa indispensabile dalla ripresa della corsa agli armamenti e della rimilitarizzazione dell’Europa, in un contesto di nuove tensioni internazionali innescate dalla guerra in Ucraina e dall’offensiva genocida dello Stato sionista a Gaza. Forti della loro comprensione del legame costitutivo tra guerre, sistema statale mondiale e modo di produzione capitalistico, le marxiste e i marxisti hanno svolto un ruolo importante nei dibattiti su questa questione, in particolare nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale.

Tra loro, l’economista Michael Kidron (1930-2003) può essere considerato un pioniere. Militante e teorico della corrente che ha dato vita al Socialist Workers Party britannico (da cui è uscito negli anni ’70), fin dagli anni ’50 ha cercato di svelare quello che allora appariva un enigma, ovvero le ragioni della crescita economica senza precedenti del capitalismo occidentale durante quelli che sono stati definiti i “gloriosi 30”. La sfida è infatti importante per le/i marxiste/i, tradizionalmente più inclini a prevedere, o constatare, le crisi del sistema, per leggervi i segni della sua obsolescenza, che ad analizzare i meccanismi del suo dinamismo. Questa propensione è stata accentuata dalla fondazione della Terza Internazionale, la cui tesi fondante era che con lo scoppio della prima guerra mondiale il capitalismo sarebbe entrato in una “crisi generale” irreversibile e quasi permanente, foriera del suo crollo, di nuove guerre e di inevitabili spinte rivoluzionarie, inaugurate da quella dell’Ottobre 1917. In questo contesto, i periodi di “stabilizzazione” venivano inevitabilmente interpretati come brevi intermezzi di un modo di produzione che si supponeva fosse ormai entrato nella sua fase “ultima” di “declino” accelerato.

Eugène Varga (1879-1964), economista esperto dell’Internazionale Comunista e, per un certo periodo, di Stalin, aveva ampiamente diffuso queste tesi – spesso definite “catastrofismo economico“ – durante il periodo tra le due guerre, tesi alle quali la Grande Depressione del 1929 e la prospettiva di una nuova guerra avevano dato una certa credibilità. Ad eccezione di Gramsci, questa visione era quasi unanimemente condivisa all’interno del movimento comunista. Così, nel Programma di transizione (1938), Trotsky parla di “capitalismo in decomposizione”, di “agonia” e afferma che “le forze produttive dell’umanità non crescono più”. E aggiunge: “Le nuove invenzioni e i nuovi progressi tecnici non portano più a un incremento delle ricchezze materiali. Le crisi congiunturali, nelle condizioni di crisi sociale di tutto il sistema capitalista, schiacciano le masse sotto privazioni e sofferenze sempre più grandi”. Alcune correnti che si richiamavano a lui, in Francia in particolare la corrente “lambertista”, hanno continuato a ritenere valide queste analisi per diversi decenni dopo la fine della guerra.

Dal lato dell’“ortodossia” dei partiti comunisti, la situazione non è meno desolante: Maurice Thorez (1900-1964), segretario generale del Partito comunista francese (PCF) dal 1930 fino alla sua morte, difende per tutti gli anni ’50 e fino all’inizio degli anni ’60 la tesi di una “assoluta pauperizzazione della classe operaia”, nonostante il crescente imbarazzo che le sue posizioni suscitano anche tra gli economisti del partito. Di fronte a questa caricatura del marxismo, la corrente socialdemocratica o liberale mainstream non aveva alcuna difficoltà a diagnosticare la realtà del boom economico del dopoguerra e a trarne le conclusioni politiche: un’epoca di crescita illimitata, capace di garantire a tutte/i prosperità e accesso al consumo di massa. La prospettiva di una rottura rivoluzionaria viene dichiarata superata a favore di un gradualismo riformista, o addirittura di una società dell’abbondanza pacificata, che ha superato sia le crisi economiche che gli antagonismi di classe.

È senz’altro un merito di Michael Kidron, fin dai suoi articoli di metà anni ’50, aver preso sul serio le nuove realtà del capitalismo del dopoguerra, plasmato dal compromesso sociale messo in atto dal governo laburista salito al potere nel 1945 – l’equivalente britannico delle conquiste sociali della Liberazione: nazionalizzazioni, integrazione del movimento sindacale negli organi di negoziazione, aumento dei salari e della produzione, etc. A partire dall’inizio degli anni ’60, egli sottolinea il ruolo dell’industria bellica in questa dinamica di espansione economica. La cosiddetta “guerra fredda”, in realtà molto “calda” al di fuori del teatro europeo e occidentale, stava diventando sempre più evidentemente sinonimo di corsa agli armamenti tra i due blocchi opposti. Nel gennaio 1961, in un discorso di fine mandato che fece epoca, il presidente statunitense Dwight Eisenhower dichiarò che “siamo stati costretti a creare un’industria permanente degli armamenti [è pressoché la formulazione di Kidron] di proporzioni considerevoli. Inoltre, tre milioni e mezzo di uomini e donne sono direttamente impegnati nella difesa. Per la sicurezza militare, ogni anno spendiamo più del reddito netto di tutte le imprese americane”. Nello stesso discorso, Eisenhower, pur essendo ferocemente anticomunista e imperialista, lanciò un monito premonitore: “Dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, ricercata o meno, da parte del complesso militare-industriale. Il rischio di un disastroso aumento di potere da parte di un potere mal riposto esiste e persisterà. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici”.

In realtà, già negli anni ’40, marxisti eterodossi come Edward L. Sard (che forgia il termine “economia permanente degli armamenti”), Michael Kalecki o Paul M. Sweezy avevano analizzato il ruolo dell’industria bellica e dell’economia di guerra in una prospettiva keynesiana – in senso lato – incentrata sul ruolo dell’intervento statale e della spesa pubblica. Dunque, nonostante il tema non fosse nuovo, per quanto confinato ai margini del dibattito intellettuale e politico della sinistra, le tesi di Kidron si caratterizzano per la volontà di integrare il dibattito nel quadro rigorosamente marxista della teoria delle crisi capitalistiche, la cui espressione concentrata va ricercata, secondo lui, nella tendenza alla diminuzione del tasso di profitto.
Questa teorizzazione verrà formulata nella maniera più esaustiva nell’articolo che segue, pubblicato per la prima volta nella rivista International Socialism nella primavera del 1967 e rimasto finora inedito in francese [e in italiano].

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Un’economia permanente degli armamenti
Comprendere l’economia permanente degli armamenti. Introduzione all’economia politica di Michael Kidron

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