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Accordo UE-USA: una capitolazione che apre una nuova guerra sociale

Maurizio Coppola

L’accordo concluso qualche giorno prima tra Stati Uniti e Giappone lo aveva anticipato: le trattative tra gli USA e i suoi principali partner politici e commerciali sono volte a rafforzare il dominio politico, economico, commerciale e militare degli USA a livello globale e rappresentano quindi una vera e propria controffensiva dell’imperialismo statunitense nel nuovo ordine mondiale.

La capitolazione di Ursula von der Leyen di fronte alle misure imposte dal presidente USA Donald Trump è l’immagine di un progetto europeo senza prospettiva, incapace di mettere in discussione il proprio modello di sviluppo economico e commerciale che si basa sull’export a detrimento della domanda interna e che vuole semplicemente continuare con il business as usual all’origine della stagnazione del continente europeo. In definitiva, si tratta di una classe dominante incapace di sviluppare un’autonomia strategica – politica, economica, militare – e che scarica sulla classe lavoratrice i costi della crisi in cui il continente è precipitato.

Colpiti saranno alcuni settori e aziende, quelli orientati verso l’export che avranno più difficoltà a vendere sul mercato USA, e soprattutto quelle che producono per il mercato interno e che si vedono tagliati, ancora una volta, importanti investimenti economici e una concorrenza USA ancora più feroce. Ma a pagare il conto finale del protezionismo statunitense sarà soprattutto la classe lavoratrice nel suo insieme.

Una vittoria totale del capitale statunitense

Per tutto il fine settimana passato, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva negoziato con un unico obiettivo in mente: evitare il 30% di dazi doganali che Washington aveva minacciato di introdurre sui prodotti europei in caso di mancato accordo entro il 1° agosto 2025. Considerata questa minaccia, von der Leyen si è detta soddisfatta dell’accordo raggiunto: ai prodotti europei sarà applicato un dazio doganale all’entrata sul territorio USA del “solo” il 15%. Ma questa (esagerata) soddisfazione europea passa sotto silenzio tre elementi fondamentali dell’accordo.

Primo, i dazi imposti ai prodotti europei sono del tutto asimmetrici perché non vengono accompagnati da tariffe doganali sui prodotti USA che continueranno a competere senza restrizioni sul mercato europeo. I dazi al 15% sono quindi di una vera e propria misura coercitiva unilaterale e non un accordo tra uguali. A dimostrazione che USA e UE non sono veri partner, ma che l’UE è subordinata agli USA.

Secondo, se a inizio aprile Trump parlava ancora di dazi del 10%, il risultato raggiunto il 27 luglio è decisamente a perdere. Un anno fa la media dei dazi sui prodotti europei negli USA era inferiore al 5%. A partire dal 1° agosto quindi i prodotti europei subiranno un aumento del prezzo notevole sul mercato statunitense. Se i dazi sulle automobili europee verranno diminuiti dal 25 al 15%, questa diminuzione non vale per i prodotti farmaceutici e metallurgici. L’acciaio e l’alluminio provenienti dal continente europeo rimarranno soggetti agli attuali dazi del 50%, cosa che praticamente costituisce una chiusura del mercato statunitense a questi prodotti europei.

Terzo – e forse è l’elemento più importante – l’accordo prevede dei forti impegni futuri da parte dell’UE negli USA.

1. Il continente europeo ha accettato di investire ulteriori 600 miliardi di dollari nell’economia USA, cioè tre volte il surplus commerciale realizzato dall’Europa negli USA nel 2024. Invece di investire nella propria economia, l’Europa preferisce farlo negli USA, malgrado il sottoinvestimento del capitale sia diventato un problema cronico dell’Eurozona, cosa che ha prodotto la debole crescita economica europea e un indebolimento della domanda interna.Tra l’altro, questo è il punto più oscuro di tutto l’accordo, perché i governi non potranno obbligare le aziende private europee a investire negli USA. Una delle ipotesi più plausibili è che a investire negli USA saranno dunque le grandi industrie, tipo quelle della difesa (in Italia Leonardo), che, pur essendo private, hanno il pacchetto di maggioranza relativa in mano al Tesoro o ad altri enti pubblici e quindi possono essere “istruite” in tale direzione. Dunque, investimenti di 600 miliardi che, probabilmente, verranno concentrati in settori chiave per supportare il dominio statunitense.

2. A questi investimenti economici si aggiungono 750 miliardi di dollari di spese in “prodotti energetici” statunitensi, cioè principalmente prodotti fossili come petrolio, gas di scisto e gas naturale liquefatto (GNL). Si tratta di un definitivo addio all’energia a basso costo: il GNL statunitense costa circa sei volte il prezzo del gas russo e a partire dal 2022, dopo l’invasione dell’Ucraina, lo staccamento dal gas russo ha costituito un elemento centrale della deindustrializzazione europea, soprattutto in Germania, fortemente dipendente dal gas russo. Va da sé che un costo così tanto più alto per le imprese europee ne comporterà una minore competitività futura, a favore di imprese concorrenti di altre aree (USA e non solo). Ma non solo aumento dei costi: insieme allo spostamento di ingenti capitali negli USA, questo elemento porterà anche a una diminuzione degli investimenti nelle energie rinnovabili, con un settore con forte potenziale di sviluppo e crescita, nonché necessario di fronte alla crisi climatica, che perderà terreno nei confronti di altri player mondiali, Cina in primis (che rimane il primo obiettivo degli USA).

3. Investimenti economici, prodotti energetici e, infine, “ingenti quantità” (cit. Trump) di armi statunitensi. Tutta la storia del rafforzamento della “sovranità europea” che ci hanno raccontato mentre annunciavano la messa a disposizioni di 800 miliardi di Euro all’industria europea con il programma “ReArm Europe” crolla come una casa di carta di fronte agli impegni presi dall’UE nell’accordo con gli USA, che confermano la dipendenza dell’Europa dalle forniture di armi statunitensi. Quindi, il piano di riarmo dei Paesi europei sosterrà la crescita economica USA, ben inteso tramite i tagli al welfare sociale (austerity) per le classi popolari.

Un accordo di vassallaggio a cui si accoda anche il governo Meloni

Trump ha vinto su tutta la linea, confermando il rapporto di vassallaggio tra USA e Europa: le imprese statunitensi non avranno solo accesso ai mercati e alle risorse dei Paesi alleati, ma Washington li rende anche dipendenti dai prodotti statunitensi e, a lungo termine, rafforzerà le proprie industrie tramite il reshoring negli USA e il controllo della produzione europea catturando parte del plusvalore creato in Europa. L’UE sosterrà quindi la crescita statunitense, dipenderà dal petrolio e dalle armi d’oltreoceano e non toccherà le rendite digitali dei big tech statunitensi. La subordinazione europea al dollaro statunitense è totale. In fondo è la solita strategia imperialista statunitense ma, invece che con i bombardamenti sul territorio europeo come nel Novecento, effettuata attraverso un atteggiamento “passivo aggressivo”: disimpegno del capitale statunitense in Europa e obbligo per i capitalisti europei di impegnarsi negli USA.

Il governo italiano si è accodato alle dichiarazioni positive sul nuovo accordo commerciale, perché secondo la Premier Giorgia Meloni la priorità era “evitare lo scontro” con gli alleati statunitensi. Sui 623 miliardi di euro di valore esportato dall’Italia nel 2024 (+3,5% rispetto all’anno precedente), circa il 13% (78 miliardi di euro) è destinato agli USA. Si tratta quindi di un mercato importante per diversi settori industriali come quello metalmeccanico, farmaceutico, di mezzi di trasporto e, soprattutto, di quello che secondo il ministero del Made in Italy caratterizza l’italianità (moda, agroalimentare, beni di lusso).

Ora, se le tariffe doganali ostacoleranno l’accesso dei prodotti italiani al mercato statunitense, per garantirsi quella fetta di mercato, la classe imprenditrice proverà a scaricare almeno una parte dei costi aggiuntivi, da sostenere per accedere al mercato statunitense, “a casa propria”: attraverso la riduzione dei costi di produzione, ergo dei salari. Alla luce di ciò, quali sono le misure che il governo applicherà per proteggere le condizioni di chi lavora in Italia? Un salario minimo legale? Maggiori controlli alle imprese che non rispettano i contratti nazionali? Niente di tutto ciò. Il governo Meloni è più preoccupato del fatto che il Parmigiano, il Barolo o i prodotti Gucci continuino a essere venduti sul mercato USA (riempiendo le tasche di queste grandi imprese) piuttosto che dei salari, dei ritmi di lavoro e dei diritti di chi le produce queste merci.

Guerra commerciale, guerra sociale

A perdere con questo accordo UE-USA è quindi soprattutto la classe lavoratrice, sia quella europea che si vedrà ulteriormente messa sotto pressione da un sistema economico che bada solo ai profitti del capitale, sia quella statunitense “esclusa” dal protezionismo trumpiano.

In Europa e in Italia, la classe lavoratrice pagherà doppiamente i costi di questo accordo. Primo, perché una riduzione degli investimenti nell’economia europea confermerà la debole crescita economica del continente e, di conseguenza, la forte pressione su lavoro, salari e diritti. Gli interessi antagonisti tra industriali e classe lavoratrice emergono ancora una volta in modo evidente: ai primi non interessa investire per rafforzare le economie nazionali e proporre un modello economico e sociale continentale, bensì unicamente per assicurarsi l’accesso ai mercati esteri.

Secondo, perché saranno le lavoratrici e i lavoratori a subire i tagli al welfare sociale che andranno a finanziare il riarmo dell’Europa che proprio gli USA ci ha imposto tramite l’aumento delle spese militari, prima al 2% e poi al 5% del PIL. E i governi europei – Giorgia Meloni in primis – hanno accettato sia le nuove regole della NATO che il nuovo accordo UE-USA senza un minimo accenno di protesta. Dopotutto, il welfare europeo, costruito nel Novecento soprattutto grazie alle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori, dimostra ancora di essere un “serbatoio di valore” da tagliare, spostando ciò che ne rimane dai salari ai profitti.La storia nella sua prima parte è scritta: l’UE ha (forse) evitato la guerra commerciale con gli USA, ma a costo di una guerra sociale che sarà perfino più violenta: le classi dominanti utilizzeranno questo accordo proprio per aumentare la pressione sulla classe lavoratrice nel suo insieme e approfondire la sua frammentazione politico-sociale (su scala internazionale). Ma la seconda parte della storia, l’esito di questa guerra sociale, invece è tutt’altro che scritto e dipenderà anche dalle risposte che prepareranno le organizzazioni politiche e sindacali al rientro dalla pausa estiva.

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