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Fanon: può un solo film rispondere a tutte le attese della decolonialità?

Sofia Buttarelli

Nel centenario della nascita di Frantz Fanon – psichiatra martinicano, figura centrale del pensiero anticoloniale e della rivoluzione algerina – l’uscita del biopic diretto da Jean-Claude Barny ha suscitato un acceso dibattito in Francia.

Fin dalle prime fasi della distribuzione, il film ha incontrato numerosi ostacoli, a partire dalla difficoltà di ottenere una diffusione adeguata nelle sale cinematografiche. Ad oggi, non è ancora stata annunciata una data di uscita per l’Italia. Alcuni circuiti cinematografici ne hanno messo in dubbio l’attrattività commerciale, una posizione difficilmente giustificabile considerando la persistente attualità del pensiero fanoniano e la rilevanza della sua eredità politica.

Nonostante tali resistenze, la pellicola ha comunque registrato buoni incassi, contribuendo a generare un dibattito mediatico vivace, in alcuni casi, polarizzato. Le critiche si sono concentrate non solo sulla distribuzione disomogenea del film, ma anche sul suo contenuto: in particolare, sono stati sollevati dubbi sulla coerenza politica dell’opera e sulla sua accuratezza storica.

La partecipazione del regista a Radio J – emittente radiofonica nota per la sua linea editoriale che contribuisce alla normalizzazione del discorso sionista e che minimizza la responsabilità dello Stato di Israele nel genocidio in corso contro il popolo palestinese – ha suscitato forti reazioni, sollevando interrogativi sulla coerenza dell’autore.

Alcuni collettivi decoloniali attivi nel campo del cinema hanno preso posizione contro il film e il regista, invitando a una visione critica e suggerendo altre opere considerate più fedeli alla complessità della figura fanoniana, in particolare il documentario anch’esso incentrato sul suo periodo all’ospedale psichiatrico di Blida, Chroniques fidèles survenues au siècle dernier à l’hôpital Blida-Joinville (2024) del regista algerino Abdenour Zahzah.

Queste discussioni che il film ha sollevato testimoniano quanto il pensiero di Fanon resti ancora d’attualità. Il cinema, ancora una volta, si conferma un mezzo capace di rimettere al centro l’importanza di queste tematiche, sfuggendo a letture univoche.

Fanon a Blida

Scena di apertura: Frantz Fanon (Alexandre Bouyer) viene nominato capo reparto dell’ospedale psichiatrico di Blida-Joinville. In macchina con sua moglie Josie (Déborah François) attraversa le strade soleggiate dell’Algeria coloniale.

Siamo nell’anno 1953, il film si concentra sul secondo periodo di Fanon,  successivo alla sua pubblicazione nel 1952 – all’età di soli 26 anni – di Peau noire, masques blancs. Quest’opera fondamentale, inizialmente rifiutata come tesi della facoltà di Psicologia, analizza come la percezione e il significato del colore della pelle, sebbene un dato biologico, siano profondamente influenzati da dinamiche storiche, politiche e sociali.

Trasferitosi in Francia dalla Martinica, Fanon aveva vissuto e analizzato in prima persona la percezione dei francesi nei suoi confronti; interiorizzando lo sguardo svalutante del colonizzatore si svela la violenza psicologica insita nel colonialismo, che agisce non solo sul corpo, ma anche sulla mente, producendo soggettività frammentate e identità negate.

Queste riflessioni di carattere politico troveranno la sua tesi proprio nel centro di psichiatria algerino, che dalle prime immagini è mostrato come mondo alienante: trattamenti disumani ai quali i pazienti venivano sottoposti, dosi massicce di sedativi, lobotomie praticate con inquietante frequenza. L’ospedale, isolato dal resto della città, riflette concretamente la condizione di marginalità dei malati nella società. Prima del suo arrivo, esisteva un edificio al suo interno, in cui i pazienti venivano ammassati per ricevere il cibo dall’alto. Fanon, cerca di mettere quindi in pratica all’ospedale una terapia radicalmente innovativa, l’ospedale per lui doveva essere una struttura sociale dove il paziente assume un ruolo attivo. 

Lo spettatore è accompagnato nella progressiva presa di coscienza critica del medico, cosa che dà al  film un ritmo costantemente incalzante e serrato. 

Il suo profilo si delinea attraverso l’azione concreta sul campo e una crescente presa di coscienza che lo conduce all’engagement per la liberazione dell’Algeria. La messa in scena risulta particolarmente efficace, sostenuta da una fotografia di grande forza espressiva, in cui dominano le ricorrenti tonalità del rosso, cariche di significati simbolici che possono rimandare alla malattia, all’oppressione ma anche alla trasformazione attraverso la lotta.

È chiaro quindi che per Fanon la psichiatria è politica, atto di rottura epistemologica, volto a scardinare un sistema che priva l’individuo colonizzato di qualsiasi possibilità di rappresentazione autonoma. Il razzismo coloniale, infatti, non si limita a depredare le sue vittime di risorse materiali, ma le disumanizza, escludendo dal campo dell’umano.

Tra licenze narrative e distorsioni storiche

Se è un bene che la figura dello psichiatra-filosofo venga riportata all’attenzione del grande pubblico, non si può tuttavia ignorare che la sceneggiatura del film ometta molti elementi cruciali.

Il pensiero dello psichiatra, pur presente, non risulta del tutto chiarificato nel film. È noto, infatti, che all’ospedale di Blida i pazienti venivano curati separatamente in base alla loro origine, con una netta divisione tra francesi e algerini – una realtà che la pellicola non evidenzia in modo esplicito. Inoltre, l’introduzione del personaggio di un colonnello francese che, infiltratosi nell’ospedale psichiatrico, viene comunque curato da Fanon, non trova riscontro in alcuna documentazione storica. Se da un lato il film integra riflessioni e frasi tratte dal futuro libro I dannati della terra, dall’altro non evidenzia la rigida segregazione all’interno delle strutture psichiatriche coloniali. Questa separazione, che Fanon denuncia come emblematica del razzismo istituzionale, resta così solo accennata, privando lo spettatore di una comprensione più profonda della sua critica al sistema coloniale.

Fanon criticava apertamente l’École psychiatrique d’Alger che classificava gli algerini come “primitivi” affetti da patologie ereditarie incurabili, contribuendo così alla loro disumanizzazione sistematica.

Rappresentato come una figura eroica e centrale, i personaggi che lo circondano risultano invece fortemente ridotti. L’impegno politico della compagna Josie, ad esempio, resta confinato – purtroppo – a un ruolo secondario, limitato alla sola riscrittura dei versi de I dannati della terra, come fosse la sua assistente. Anche i medici che affiancarono Fanon appaiono appena tratteggiati. Il film introduce la figura di Alice Cherki (Salomé Partouche), psichiatra algerina di origine ebraica che collaborò attivamente all’ospedale di Blida e che, anni dopo, gli avrebbe dedicato una biografia di riferimento. Tuttavia, anche il suo ruolo rimane marginale all’interno della narrazione filmica. 

Non approfondire questo personaggio è un’occasione mancata: quando Franz Fanon organizzò delle conferenze per l’Association de la Jeunesse Algérienne pour l’Action Sociale (AJAAS), lei raggiunse l’équipe medica all’ospedale di Blida in quanto condivideva l’engagement per l’indipendenza dell’Algeria. 

Checki è diventata una figura di riferimento per gli studi postcoloniali e per il pensiero terzomondista, nel 2000 ha pubblicato la prima biografia su Franz Fanon. In quest’opera analizza il pensiero dello psichiatra da una prospettiva politica piuttosto che culturalista, mettendo in luce i rapporti tra colonizzatore e colonizzato, oppressore e oppresso e i conseguenti effetti di spersonalizzazione. Secondo Cherki, è proprio nella ricerca di vie d’uscita da questa condizione e nella costruzione di nuovi riferimenti collettivi che Fanon avrebbe posto il cuore stesso del suo pensiero e della sua azione politica.

Ampliando la nozione marxista di alienazione; la sua analisi investe la dimensione culturale, psicologica e soggettiva dell’individuo colonizzato. L’alienazione, in Fanon, è totale: colpisce la lingua, il corpo, la coscienza. L’oppressione coloniale si radica nelle strutture materiali tanto quanto nelle forme del pensiero e dell’immaginario.

La rappresentazione dell’FNL

Il film rappresenta la progressiva maturazione dell’impegno di Fanon, culminata nella sua decisione di arruolarsi nel Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), al quale si dedicò completamente per la liberazione dell’Algeria. Il suo incontro con Abane Ramdane (Salem Kali) segna un momento cruciale in questo percorso, mettendo in luce un legame che andrà ben oltre una semplice collaborazione politica. È tuttavia importante sottolineare come, inizialmente, Fanon rivestisse un ruolo subalterno all’interno del movimento; soltanto in una seconda parte acquisì una posizione di maggiore rilievo. Anche l’amicizia con Ramdane, contrariamente a quanto suggerito dal film, si sviluppò in una fase successiva mentre nel appare come un legame già consolidato.

In generale, il FLN non è rappresentato in modo particolarmente accurato, né dal punto di vista storico né rispetto alla complessità della sua lotta. L’organizzazione appare talvolta caricaturale, soprattutto attraverso alcune frasi in voice-over che scandiscono la narrazione, senza però restituire la profondità dell’impegno di Fanon né la struttura e l’importanza del movimento di liberazione. Dopo la sua espulsione dall’Algeria, Fanon si rifugiò con la famiglia a Tunisi, presso il quartier generale del FLN. Qui il film colloca anche la morte di Abane, che però, in realtà, avvenne in Marocco e non in Tunisia.

Inoltre, scegliendo di raccontare la vita di Fanon solo fino alla sua morte, il film omette un aspetto fondamentale: la teorizzazione del panafricanismo, inclusa la sua influenza su Patrice Lumumba (Ex primo ministro della Repubblica democratica del Congo) e il ruolo da lui svolto durante la conferenza panafricana di Kinshasa.

Fanon morì prima di vedere l’Algeria indipendente.

Il cinema come campo di tensione

A prescindere da alcune omissioni significative – che meritano di essere evidenziate – va ricordato che il film, in quanto opera di finzione destinata a un pubblico ampio, ha avuto comunque il merito di riportare al centro del dibattito una figura ancora oggi largamente sconosciuta al grande pubblico, ma reputato oggi specialmente negli ambienti intellettuali.

Sopratutto in una Francia in cui le fratture coloniali sono ancora profonde e durante un contesto attuale segnato dal genocidio palestinese, usciti dalla sala ci si chiede come posizionarci oggi avanti alla storia coloniale.

Le critiche, soprattutto da parte di chi conosce in profondità il pensiero fanoniano, sono comprensibili e legittime, poiché evidenziano la tensione tra rigore teorico e trasposizione mediatica. Tuttavia, il cinema – in quanto forma potente di narrazione visiva – rappresenta uno degli strumenti più efficaci nella costruzione dell’egemonia culturale e un film, che rimane solo uno sguardo e una parzialità sul mondo, non può rispondere a tutte le attese della decolonialità.

In questo senso, l’opera cinematografica non può essere valutata esclusivamente in base alla sua aderenza filologica ai testi, ma va anche letta come un intervento nell’ambito dell’immaginario politico, capace di stimolare processi di riflessione, coscienza critica e, potenzialmente, trasformazione. Sarà poi a noi usciti dal cinema ad avere voglia di saperne di più, criticare il film, leggere Fanon e introdurlo nell’attualità. Attendiamo quindi che la pellicola arrivi anche nelle sale italiane, affinché si possa aprire un dibattito simile.

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