Skip to content
Me-Ti

Benvenuti nell’era Trump 2.0

Me-Ti

Nelle ultime settimane la retorica di Trump e dei suoi fedeli accompagnatori verso il suo insediamento da 47° presidente degli Stati Uniti d’America ha rivelato l’aggressività con cui il tycoon dirigerà il Paese nei prossimi quattro anni (2025-2028).

Per quel che riguarda la politica estera, Trump ha iniziato il suo nuovo mandato ben prima dell’insediamento ufficiale. In diverse occasioni nelle ultime settimane ha fatto dichiarazioni pubbliche che disegnano i contorni di quello che ci aspetta a livello internazionale. Che si tratti di protezionismo commerciale contro le merci cinesi, canadesi o messicane, dichiarazioni sulla presa di controllo dell’importante snodo logistico del Canale di Panama, avvertimenti di annessione di interi territori come il Canada o la Groenlandia, annunci di ridenominazione del “Golfo del Messico” in “Golfo d’America” o minacce di intervenire con l’aviazione statunitense a Gaza in caso gli ostaggi israeliani ancora in mano ad Hamas non saranno rilasciati entro il 20 gennaio – tutto ciò è più che solo retorica, bensì singoli indizi della direzione che l’imperialismo statunitense a guida Trump prenderà nel futuro prossimo. Si tratta di un imperialismo di regime di guerra volto a restaurare l’assoluta egemonia mondiale e concretizzare una vera e propria Dottrina Trump che probabilmente determinerà l’agire geopolitico degli Stati Uniti ben oltre il suo mandato.

Ma non sono state le politiche internazionali a decidere le elezioni statunitensi; i temi centrali che hanno influito sul voto del 5 novembre 2024 sono stati la salute dell’economia USA e le condizioni di vita e di lavoro della working class statunitense. Trump eredita un Paese che dopo la parentesi Biden ha apparentemente ritrovato una stabilità economica, questo è quello che ci rivelano a prima vista gli indicatori statistici che parlano di una crescita economica ben al di sopra del 2%, di una ripresa importante dell’occupazione e di un’inflazione al di sotto del 3%. Ma questa narrazione non regge l’analisi qualitativa delle condizioni di vita e di lavoro negli Stati Uniti. Lo scivolamento in una più diffusa precarietà delle classi popolari durante gli ultimi anni e il sentimento di “non arrivare a fine mese” sono le condizioni materiali che hanno reso affine il “piccolo uomo bianco” alla narrazione trumpiana di riscatto1 e dell’identità nazionale etno-razziale statunitense2. L’offerta politica di Trump promette una “normalizzazione”, un ritorno agli Stati Uniti pre-1968, anno in cui una “rivoluzione politico-culturale” ha realmente permesso di estendere – anche se sempre entro certi limiti – i diritti civili e sociali a larghe fasce della popolazione statunitense (diritti civili degli afroamericani, integrazione delle donne nel mercato del lavoro, diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, etc.). Il 1968 coincide anche con l’inizio di una crisi economica che negli anni Settanta ha poi prodotto la Grande Inflazione – e portato, nel 1980, all’elezione del conservatore Ronald Reagan.

Quel che accomuna le visioni politiche interne e esterne di Trump è proprio MAGA: Make America Great Again – l’America pre-1968. Si tratta di un vero e proprio movimento politico-ideologico difensore della supremazia bianca maschile contro tutti i “mali del mondo”: il comunismo, l’islam, la migrazione illegale, le teorie del gender e il femminismo in generale, il wokismo, la burocrazia del welfare state, etc. Per difendere le condizioni materiali dell’uomo bianco statunitense (piccolo borghese), nella visione trumpiana la costruzione di muri contro le lavoratrici e i lavoratori migranti latinoamericane/i va a pari passo con la fissazione di dazi sui prodotti cinesi che “minano la produzione interna”, la diretta presa di controllo delle risorse naturali ed energetiche in Sudamerica e la lotta contro ogni ideologia che mette in questione la centralità della supremazia bianca. In questo senso, MAGA non si limita ad essere un movimento politico all’interno del Partito Repubblicano degli USA, ma influisce fortemente sia sul Partito Democratico statunitense che sull’ultradestra a livello globale.3

In questo articolo ci concentriamo sulle dinamiche interne degli Stati Uniti. Partiamo da una breve analisi del voto di novembre 2024 che ha portato alla vittoria elettorale di Trump; passiamo poi all’esposizione di alcuni dati statistici che rivelano il vero “stato di salute del Paese” e finiamo con un focus sulle lotte politiche e sociali che hanno investito gli USA in questi ultimi anni, unica fonte di speranza nelle lotte anti-trumpiste.

Sociologia della vittoria elettorale di Trump

Per comprendere la vittoria di Trump, vale la pena iniziare con la fotografia del voto popolare4 di novembre. Contro ogni previsione, Trump lo ha vinto ottenendo 77.284.118 voti, pari al 49,8% dei voti espressi; questi corrispondono a un aumento di 3.059.799 voti rispetto al 2020 e perfino 14.299.293 in più rispetto al 2016. Kamala Harris ha ottenuto 74.999.166 voti, pari al 48,3% dei voti espressi. Si tratta di 6.285.500 voti in meno rispetto a quelli ottenuti da Biden nel 2020, ma 774.847 in più rispetto a quelli ottenuti da Trump nel 2020. In termini relativi, l’affluenza alle urne a livello nazionale nel 2024 è stata del 63,9% (156.302.318 votanti). Si tratta di una percentuale inferiore al 66,6% registrato nel 2020, elezioni presidenziali con l’affluenza più alta dal 1900.

Spacchettando il voto popolare secondo i gruppi sociali, riusciamo già a comprendere più in profondità il carattere del voto. Le donne hanno votato per Harris con 10 punti di distacco da Trump, ma questo margine è diminuito sia dal 2016 (+13 per Clinton) che dal 2020 (+15 per Biden). Le donne bianche hanno confermato il loro voto per Trump che ha preso 5 punti in più di Harris (nel 2020 Trump prese 11 punti in più di Biden); anche tra gli uomini bianchi Trump ha preso 20 punti in più di Harris. Tra i giovani invece troviamo un’immagine ambigua: mentre le donne tra i 18 e i 29 anni hanno preferito Harris (58% contro 40%), i loro coetanei maschi hanno scelto Trump (56% contro 42%). In entrambe le categorie Trump ha aumentato il consenso (nel 2020, 41% tra le giovani donne e 33% tra i giovani uomini). Le donne nere rimangono fedeli al Partito Democratico, in questa tornata Harris ha raggiunto l’85% del loro voto.

Il voto della comunità ispanica si è spostato fortemente a destra: Trump ha vinto il voto ispanico maschile con +10% (mentre lo perse sia nel 2016 con 31 punti di scarto da Clinton che nel 2020 con una differenza di 23% da Biden), Harris invece ha vinto quello ispanico femminile con 24 punti di distacco, vantaggio però quasi dimezzato dal 2016 quando Hillary Clinton lo vinse con un +44%. Vale la pena soffermarsi brevemente su questo spostamento a destra del voto ispanico, perché sembra essere in contraddizione alla retorica xenofoba e razzista di Trump. La comunità ispanica è triplicata negli ultimi 30 anni e oggi conta circa 62 milioni di persone, 4 su 5 sono cittadine/i statunitensi con il diritto al voto. Una parte importante è collocabile tra i piccoli imprenditori e commercianti degli Stati del Sud materialmente vicini alla classe media statunitense, con ambizioni di integrazione nel “sogno americano” (cosa che li avvicina culturalmente alla narrazione del Paese di Trump), appartenente agli evangelici (tra il 15 e il 20%), comunità religiosa in cui il trumpismo ha fortemente investito. In questo caso quindi, per quel che riguarda l’orientamento di voto le condizioni materiali e la collocazione culturale prevalgono sull’origine etnico-nazionale.

Un altro dato rilevante del voto di novembre 2024 è il fatto che la working class si è notevolmente allontanata dal Partito Democratico. La parte delle elettrici e degli elettori “non istruite/i” (cioè coloro che non possiedono un diploma universitario) che ha votato per il Partito Democratico è scesa dal 47% nel 2020 al 43% nel 2024. Se prendiamo come riferimento il reddito, il calo del voto è ancora più significativo: il sostegno ad Harris tra chi guadagna meno di 50.000 dollari annui è sceso al 48% (-6% dal 2020); dall’altro lato, coloro che guadagnano più di 100.000 dollari all’anno hanno registrato un sostegno del 53% (contro il 54% nel 2020).

L’erosione del voto working class per il Partito Democratico si è evoluta in maniera diseguale a seconda dei gruppi demografici. Se si verifica una diminuzione dal 37% (2020) al 34% tra la classe operaia bianca (ma addirittura del -11% se consideriamo solo la working class bianca non istruita!), la diminuzione tra la classe operaia non-bianca è tre volte superiore, anche se rimane a livelli più alti, passando dal 73% nel 2020 al 65% nel 2024.

Incrociando questi dati con quelli precedenti sul voto delle minoranze etniche possiamo riassumere dicendo che l’erosione del voto della working class al Partito Democratico si è consumata perlopiù tra le lavoratrici e i lavoratori ispanici. Questa diminuzione del consenso elettorale si iscrive in una più ampia tendenza di scollamento: tra il 2021 e il 2023, il consenso della classe operaia nera è diminuita dal 93 al 87%, quello della classe operaia ispanica invece dal 68 al 62%.

Il Partito Democratico ha quindi raccolto i voti delle persone più povere, ma anche di quelle più ricche. Questa apparente contraddizione non deve sorprendere: diversamente dai Paesi europei in cui esistono ancora dei partiti tradizionalmente radicati in una cultura politica labour, questo non è il caso negli USA dove entrambi i partiti hanno sempre mantenuto una caratteristica fortemente interclassista del loro consenso.

Tra la piccola borghesia e le classi medie impoverite, invece, il 60% ha votato per Trump. Se nel 2016 l’elettore tipico di Trump aveva uno stipendio superiore al salario mediano, nel 2024 il tycoon è riuscito a raccogliere pure una parte importante del voto working class. Questa è composta per la stragrande maggioranza da bianchi, e si tratta proprio della base di massa del trumpismo, i soggetti più affini alla retorica di razzismo, xenofobia, rigetto delle istituzioni statali.

La situazione socio-economica statunitense

Abbiamo quindi detto che la situazione socio-economica delle classi popolari costituisce la base materiale della loro “adesione” alla narrazione trumpista e che, diversamente dal 2016, in queste ultime elezioni fette importanti della working class e del ceto medio impoverito hanno votato Trump. Questo è accaduto perché, diversamente dal racconto dei media mainstream sullo stato dell’arte dell’economia statunitense, la classe operaia statunitense non se la vede tanto bene.

Iniziamo dai salari, che negli USA sono storicamente distribuiti in maniera fortemente disuguale. Malgrado un aumento dei salari più bassi tra il 2019 e il 2023, il salario minimo legale di 7.25 dollari all’ora in vigore dal 2009 continua ad essere insufficiente per coprire i bisogni di base. Neanche la crisi del Covid (2020-2021), che vide un crollo dell’occupazione e dei salari reali, fu sufficiente per convincere il governo ad aumentare il salario minimo a 15 dollari. Oggi, 37.9 milioni di persone (l’11.6% dell’intera popolazione) vengono considerate working poor. Al 1° gennaio 2025, solo 28 dei 50 Stati federali hanno un salario minimo legale federale al di sopra dei miseri 7.25 dollari, e solo in 7 questo è uguale o superiore ai 15 dollari. 

Ma anche chi guadagna il salario minimo o un salario più alto spesso “non arriva a fine mese”. Los Angeles funge da esempio emblematico: il salario minimo legale in California è tra i più alti ed è di 16.50 dollari/ora. Ogni anno la contea di Los Angeles pubblica la “calcolatrice dei salari dignitosi”: nel 2024, il salario che permette di coprire tutti i bisogni vitali (cibo, casa, salute, istruzione, trasporto) di una persona singola era stimato a 26.63 dollari/ora, oltre 10 dollari in più del salario minimo legale in vigore. Per tante persone quindi avere un posto di lavoro e guadagnare il salario minimo non corrisponde affatto a una vita tranquilla, spesso servono misure aggiuntive: rivolgersi alle organizzazioni caritatevoli, trovare un secondo lavoro, rinunciare a uno dei bisogni fondamentali (spesso casa o salute) o indebitarsi fino al collo.

I numeri che restituiscono l’immagine di questa fetta degli Stati Uniti sono impressionanti: nel 2023, 18 milioni di famiglie negli Stati Uniti (13.5% di tutte le famiglie, +1 milione di famiglie rispetto al 2022) si sono trovate in una situazione di insicurezza alimentare, cioè non sono state in grado di procurarsi cibo a sufficienza per soddisfare i bisogni di tutti i loro membri, perché non avevano denaro o altre risorse sufficienti per l’alimentazione. Più di 46 milioni di persone (cioè in media 1 persona su 7, tra la popolazione nera 1 su 4 e tra quella ispanica 1 su 6), tra cui 12 milioni di bambine/i e 7 milioni di anziane/i, si affidano ai programmi alimentari caritativi per sfamare se stessi e le proprie famiglie. Tra questi, il 66% si è trovato di fronte alla scelta tra mettere il piatto a tavola o curarsi, il 57% invece di fronte alla scelta tra cibo o casa.

E ancora: il numero di persone che attualmente ha due lavori perché con un solo stipendio non arriva a fine mese ammonta a oltre 8.6 milioni di persone (5.3% di tutta la popolazione attiva); si tratta di un fenomeno fortemente in aumento dal 2021. Il 27% delle persone statunitensi adulte ha rinunciato a un trattamento medico perché non poteva permetterselo. Tra il 2022 e il 2023 – quindi nel pieno del mandato Biden – il numero ufficiale di senzatetto è aumentato dell’11% raggiungendo il numero di quasi 800.000 persone. Si tratta di gran lunga del più grande aumento registrato da quando il governo ha iniziato a elaborare le statistiche nel 2007. I due fattori che hanno determinato questo aumento sono il costo elevato degli alloggi e la mancanza di unità abitative a prezzi accessibili. Infine, anche il debito delle famiglie è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, arrivando a oltre 104.000 dollari a famiglia nel 2023 (+11% in 4 anni); oltre l’11% dello stipendio mensile viene utilizzato per la restituzione del debito, il 70% del debito invece è dedicato ai mutui. Ma il problema dell’indebitamento colpisce anche tante piccole imprese che hanno avuto accesso a crediti facili durante il primo mandato Trump e che hanno poi avuto difficoltà con l’inflazione che ha raggiunto un massimo di +9.1% nel giugno 2022 e l’aumento dei tassi di interesse negli anni di Biden.

Anche se si tratta solo di uno spaccato della realtà economica e sociale delle classi popolari statunitensi, This Is America – un’America prodotto delle decennali politiche antipopolari portate avanti anche dal Partito Democratico e dalle sue proposte insufficienti che hanno generato, tra le classi popolari, un desiderio securitario e protezionistico. Questo è il nocciolo del problema che riscontriamo anche in Europa e in Italia: negli ultimi decenni, le politiche economiche e sociali dei partiti definiti di centrodestra e centrosinistra si sono sempre più allineate e oggi sono difficilmente distinguibili. Abbandonando le esigenze delle classi popolari, i partiti di centrosinistra diventano così precursori delle politiche conservatrici e contribuiscono al rafforzamento politico e ideologico dell’ultradestra. Incapaci di offrire una vera alternativa alle politiche reazionarie anche quando stanno al governo, si ritrovano essi stessi a farsi portavoce di posizioni che hanno poco a che fare con i valori della sinistra.

I nodi vengono al pettine: lotte sociali e politiche 

Ma le politiche securitarie e protezionistiche sono tutt’altro che scontate, né all’interno delle classi dominanti, né tra la working class. Emblematica è la retorica migratoria di Trump che considera le lavoratrici e i lavoratori di origine straniera esclusivamente da un punto di vista securitario. Il suo annuncio di espulsione di 11 milioni di persone migranti gli ha forse portato qualche voto in più e ha temporaneamente tranquillizzato qualche animo, ma lo sviluppo demografico e la struttura dell’economia statunitense difficilmente permetteranno a Trump di realizzare le sue promesse. Le lavoratrici e i lavoratori migranti compongono una parte fondamentale della classe operaia statunitense e tanti settori come l’agricoltura, l’edilizia, ma anche i servizi e i trasporti rischiano di ritrovarsi in una situazione di penuria di manodopera in caso di limitazione dell’accesso a questi posti di lavoro per i/le migranti. Lo ius soli – cioè l’accesso automatico alla cittadinanza statunitense per i figli di immigrate/i, anche quelle/i cosiddette/i illegali – può essere considerato proprio un fattore positivo e funzionante per i bisogni di manodopera dell’economia statunitense. Ma durante la campagna elettorale, Trump ha promesso di abolirlo. 

Inoltre, negli ultimi anni le lavoratrici e i lavoratori migranti sono stati protagoniste/i di importanti lotte per migliori condizioni salariali e di lavoro, per esempio nella logistica (UPS e Amazon) e nei servizi alberghieri e turistici. In generale l’anno 2023 è stato fondamentale per la ripresa delle vertenze sindacali e lotte di lavoratrici e lavoratori. Nel 2023 si è contato il numero più alto di scioperi lavorativi dall’inizio del millennio. Sono stati 33 gli scioperi che hanno coinvolto almeno 1000 lavoratori durante un intero turno lavorativo; durante tutto l’anno, quasi 460.000 lavoratori hanno partecipato a uno sciopero. Queste lotte sono la conseguenza di scelte economiche ben precise. Due esempi.

Tra settembre e novembre 2023, 160.000 attrici e attori delle più importanti aziende di Hollywood – tra cui Warner Bros., Paramount, Netflix e Amazon – organizzate/i nel sindacato Alliance of Motion Picture and Television Producers (AMPTP) hanno scioperato durante 82 giorni raggiungendo, tra l’altro, il più importante aumento dei salari minimi degli ultimi 40 anni e ampie tutele per quel che riguarda l’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Il dominio della Big Tech e delle piattaforme digitali spingerà a una maggiore digitalizzazione del settore pubblico e privato, cosa che, a sua volta, produrrà nuovi problemi sociali e, di conseguenza, conflittualità e protagonismo dal basso.

Anche le politiche economiche protezionistiche comportano un rischio di maggiore conflittualità sociale. La protezione di interi settori economici contro la concorrenza internazionale darà maggiore potere contrattuale e politico alla classe operaia. Lo sciopero di 150.000 lavoratori organizzato nel sindacato Union Auto Workers (UAW) delle tre maggiori aziende dell’automotive Ford, Stellantis e General Motors può essere letto in quest’ottica: il rafforzamento del settore dell’automotive statunitense contro la concorrenza cinese non ha automaticamente comportato un miglioramento delle condizioni di lavoro. Per ricevere la loro fetta dei benefici del protezionismo, le lavoratrici e i lavoratori sono costretti a lottare. Infatti, lo sciopero ha portato a un accordo che prevede, tra l’altro, aumenti salariali fino al 33%, tempi più brevi per il raggiungimento dei massimi salari e l’abolizione del sistema salariale e previdenziale discriminatorio per alcune categorie lavorative.

Negli ultimi anni, gli Stati Uniti sono stati anche centro delle proteste contro le politiche imperialiste e genocide dei governi democratico e repubblicano. Soprattutto il movimento per la Palestina – quello popolare e universitario – ha ispirato il mondo intero nelle azioni di boicottaggio delle istituzioni dello Stato coloniale di Israele. Tra ottobre 2023 e giugno 2024, in tutto il Paese si sono contate quasi 12.400 proteste per la Palestina. Il movimento ha fortemente inciso sull’opinione pubblica per quel che riguarda la complicità dell’Occidente nelle guerre in Medio Oriente, ma non è stato capace di incidere realmente sulle politiche estere del governo Biden e oggi è quasi totalmente silenziato.

Organize!

Come prevedono alcuni analisti, le politiche di drastica deregolamentazione economica, defiscalizzazione di imprese e introduzione di tariffe sui beni importati rischiano di produrre più caos e sofferenza sociale5 – e quindi di creare le basi per ulteriori conflitti sociali e lotte dal basso. Nel contesto di un generale spostamento a destra delle istituzioni politiche occidentali e della chiusura dello spazio elettorale per una sinistra di rottura, le forze politiche di alternativa devono orientarsi primariamente a un rilancio organizzativo che metta al centro la costruzione del potere popolare al di fuori delle strutture statali. Questo vale ancor di più negli Stati Uniti, dove la natura fortemente antidemocratica del processo elettorale e la “pietrificazione del bipartitismo” impediscono che le forze alternative possano fare avanzamenti importanti.

Ne sono un esempio i risultati dei candidati di sinistra alle elezioni dello scorso novembre: Jill Stein dei verdi si è piazzata in terza posizione raccogliendo oltre 860.000 voti (0.56%), Claudia de la Cruz del Party for Socialism and Liberation (PSL) ha raccolto circa 165.000 (0.1%) e raddoppiato il risultato del 2020, mentre Cornel West di voti ne ha presi 81.000. Ma lo è altrettanto l’esperienza del Democratic Socialists of America (DSA) che con la candidatura di Bernie Sanders alla guida del Partito Democratico nel 2020 ha provato a mettere in discussione l’egemonia neoliberista del partito e che ora, dopo quella sconfitta, ha perso il proprio “momentum” insieme all’autonomia strategica e rischia di ridursi a semplice “voce dissidente” nelle istituzioni dove ha membri eletti.

L’insegnamento dei movimenti di massa degli ultimi anni – che siano quelli per la Palestina, Black Lives Matter, il movimento sindacale o altri – è invece doppio. Primo, che in un sistema politico-istituzionale talmente “bloccato”, difficilmente una larga mobilitazione sociale si trasforma automaticamente in consenso elettorale; la dialettica tra politico e sociale è complessa e richiede un impegno su entrambi i fronti allo stesso tempo. Secondo, che le alleanze politiche ampie che parlano a una vasta gamma di gruppi sociali (il movimento pro Pal per esempio ha messo insieme comunità arabo-palestinese, movimento studentesco, organizzazioni di ebree/i antisioniste/i, fette del movimento operaio etc.) necessitano di un lavoro attivo, complesso e creativo da parte delle forze politiche di alternativa per produrre sedimentazione organizzativa, e però anche questo processo è tutt’altro che scontato e lineare, ma sempre fatto di avanzamenti e arretramenti, e necessariamente orientato al medio-lungo periodo.

In fondo, le sfide della sinistra negli Stati Uniti non sembrano tanto differenti da quelle in Europa e in Italia.


  1. Tramite un atto retorico e ideologico di capovolgimento della realtà sociale, le persone bianche diventano le vittime di un presunto “razzismo anti-bianco”, di una “discriminazione inversa” o perfino di una “sostituzione etnica”. Trump “propone” di “appropriarsi” delle posizioni di subalternità per, in fin dei conti, preservare l’ordine sociale stabilito. Ma il “declino” relativo degli americani bianchi – mettendo le differenze sociali a parte – non corrisponde né alle reali disuguaglianze sociali tra bianchi e non bianchi (per esempio, nel 2022 la ricchezza mediana delle famiglie bianche era di 284.000 dollari, rispetto ai 62.000 di quelle ispaniche e ai 44.000 di quelle nere), né alle loro differenze di posizioni di potere (per esempio, nel 2023 i bianchi corrispondevano a 59% della popolazione totale, ma occupavano il 75% dei seggi del Congresso). ↩︎
  2. Gli USA sono forse l’unico Paese occidentale che non è passato dai singoli stadi di sviluppo schiavitù-feudalesimo-capitalismo, la borghesia USA si è stabilizzata utilizzando proprio il lavoro schiavile nero. La classe media e padronale statunitense si è formata all’interno di una logica profondamente, sistematicamente e, soprattutto, dichiaratamente schiavista e razzista e ha sviluppato il suo progetto egemone proprio attorno all’identità “bianca” della prima nazione occidentale “democratica”. ↩︎
  3. Miguel Urban, Trumpismos: Neoliberales y Autoritarios. Radiografía de la derecha radical, Verso Libros, Barcelona, 2024. ↩︎
  4. Lasciamo qui da parte il voto del Collegio elettorale, un residuo razzista del sistema elettorale statunitense che può tranquillamente capovolgere il voto popolare come successo proprio alle elezioni 2016 quando Trump prese quasi 3 milioni di voti in meno di Hillary Clinton, ma vinse 306 dei 538 collegi elettorali e così le elezioni presidenziali. ↩︎
  5. Cfr. Sergio Fabbrini, Rivoluzione trumpiana, i due scenari possibili, in Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2025, pp. 1 e 8. ↩︎

Newsletter

Segui gli aggiornamenti sul progetto Me-Ti!

Iscriviti