Traduciamo un articolo dello storico pakistano e militante antimperialista Tariq Ali pubblicato il 17 giugno 2025 in Sidecar, blog della New Left Review, sotto il titolo “Nuclear Options”. Ali inserisce l’attuale bombardamento di Teheran da parte dello Stato di Israele in una prospettiva storica e sostiene che, come ci insegna la storia delle guerre in Afghanistan (2001) e Iraq (2003), il tentativo esterno di un “cambio di regime” produrrà solo morti, distruzione e instabilità socio-economica.
Di Ali avevamo già pubblicato una sua intervista sul significato dell’antimperialismo oggi.
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L’espansione della guerra dalla Palestina all’Iran, iniziata il 13 giugno, segnala un’ossessione israeliana che persiste da quattro decenni. Mentre l’amministrazione Trump negoziava in malafede con l’Iran sul suo programma nucleare, il regime israeliano ha approfittato di una pausa per bombardare Teheran, assassinando scienziati di spicco, un generale di alto rango e altri funzionari, alcuni dei quali impegnati nei colloqui. Dopo alcune smentite poco convincenti, Trump ha ammesso che gli Stati Uniti erano stati informati dell’attacco in anticipo. Ora l’Occidente sta appoggiando l’ultimo attacco di Israele, nonostante quanto affermato da Tulsi Gabbard, direttrice dell’intelligence nazionale nominato da Trump, appena il 25 marzo: “La Intelligence Community [che riunisce l’attività delle diciotto agenzie dei servizi segreti statunitensi, tra cui la CIA e l’NSA, ndt] continua a ritenere che l’Iran non stia costruendo un’arma nucleare e che la Guida Suprema Khamenei non abbia riattivato il programma nucleare sospeso nel 2003”.
Gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) sanno benissimo che non ci sono armi nucleari. Hanno semplicemente agito come spie volontarie per gli Stati Uniti e Israele, fornendo ritratti degli scienziati di alto livello che ora sono stati uccisi. L’Iran ha capito tardivamente che era inutile lasciarli entrare nel Paese e ha redatto un disegno di legge per espellerli. La leadership del Paese non aveva nulla da guadagnare dal sacrificio di questa parte della propria sovranità, eppure si è aggrappata alla flebile speranza, metà convinzione e metà illusione, che se avesse fatto ciò che volevano gli americani, avrebbe potuto ottenere la revoca delle sanzioni e una pace garantita dagli Stati Uniti.
La loro stessa esperienza storica avrebbe dovuto insegnare loro che non era così. Nel 1953, il governo eletto dell’Iran fu rovesciato con l’aiuto segreto degli anglo-americani e la sua opposizione laica fu distrutta. Dopo un quarto di secolo di dittatura sostenuta dall’Occidente, la dinastia Pahlavi fu finalmente rovesciata. Ma un anno dopo la rivoluzione del 1979, l’Occidente – insieme all’Arabia Saudita e al Kuwait – finanziò l’Iraq per iniziare una guerra contro l’Iran e rovesciare il nuovo regime. La guerra durò otto anni (1980-1988) e causò mezzo milione di morti, per lo più dalla parte iraniana. Centinaia di missili iracheni colpirono città iraniane e obiettivi economici, in particolare l’industria petrolifera. Nelle fasi finali della guerra, gli Stati Uniti distrussero quasi la metà della marina iraniana nel Golfo e, per andare sul sicuro, abbatterono un aereo passeggeri civile. La Gran Bretagna aiutò fedelmente a insabbiare il tutto.
Da allora, la politica estera della Repubblica Islamica ha sempre posto al centro la sopravvivenza del regime. Durante la guerra Iran-Iraq, i religiosi non hanno esitato ad acquistare armi dai loro nemici dichiarati, Israele compreso. La loro solidarietà con le forze di opposizione è stata frammentaria e opportunistica, priva di una strategia antimperialista coerente, tranne che nella loro solitaria ma cruciale funzione di difensori dei diritti dei palestinesi, in una regione in cui tutti i governi arabi hanno capitolato di fronte all’egemonia [israelo-statunitense, ndt]. Il 15 giugno, subito dopo l’attacco israeliano, si è svolta a Gaza una straordinaria processione di oltre cinquanta asini, adornati con ghirlande e ricoperti di vesti di seta e raso; mentre venivano condotti lungo le strade, i bambini li accarezzavano con sincero affetto. Perché? L’organizzatore ha spiegato: “Perché ci hanno aiutato più di tutti gli Stati arabi messi insieme”.
Dopo le invasioni guidate dagli Stati Uniti in Afghanistan (2001) e Iraq (2003), gli iraniani speravano senza dubbio che collaborare con Washington – spianando la strada al rovesciamento di Saddam Hussein e del mullah Omar – avrebbe garantito loro un po’ di tregua. Per molti aspetti, la “guerra al terrorismo” non è stata un periodo negativo per la Repubblica islamica. La sua posizione nella regione, insieme ai prezzi del petrolio, salì alle stelle. I suoi nemici a Baghdad e Kabul furono brutalmente eliminati e i gruppi sciiti, che sosteneva dal 1979, vennero portati al potere nel vicino Iraq. È difficile immaginare che tanto il politburo di Bush (Cheney, Rumsfeld, Rice) quanto i suoi consiglieri arabi non ufficiali con sede negli Stati Uniti (Kanaan Makiya, Fouad Ajmi) non siano stati in grado di prevedere questo risultato, ma sembra che sia andata proprio così. Il primo ospite d’onore straniero non occidentale a visitare la Green Zone [Zona Internazionale di Baghdad, è un’area fortificata di circa 10 chilometri quadrati situata nel centro della capitale irachena, ndt] fu l’allora presidente iraniano Ahmedinejad.
Nazionalisti sunniti e sciiti si unirono per opporsi alle forze di occupazione, lanciando razzi e mortai contro l’ambasciata statunitense. Fu l’intervento dello Stato iraniano a dividere questa opposizione, facendo sì che un movimento di resistenza iracheno unito degenerasse in una guerra civile inutile e distruttiva. Muqtada al-Sadr, leader sciita di spicco in Iraq, rimase scioccato dalle atrocità commesse a Falluja e guidò una serie di rivolte popolari contro la coalizione statunitense. Al culmine del conflitto, fu invitato a visitare l’Iran e finì per rimanervi – o fu trattenuto lì? – per quattro anni. Il successivo ingresso dell’ISIS nel campo di battaglia rafforzò questa alleanza tattica tra Stati Uniti e Iran, con il Pentagono che forniva supporto aereo per aiutare gli attacchi sferrati dai 60.000 militanti sciiti sul terreno.
La maggior parte di queste forze erano sotto il comando indiretto di Qassem Soleimani, che era in regolare comunicazione con il generale David Petraeus. Soleimani era uno stratega di grande talento, ma suscettibile alle lusinghe, soprattutto da parte del “Grande Satana”. Era il principale ideatore delle tattiche espansionistiche messe in atto da Teheran dopo l’11 settembre, ma la sua tendenza a vantarsi con i suoi omologhi statunitensi ne allontanò alcuni, soprattutto quando spiegò con precisione come gli iraniani avessero previsto e sfruttato la maggior parte degli errori commessi dagli Stati Uniti nella regione. La descrizione di Spencer Ackerman è veritiera:
“Era abbastanza pragmatico da cooperare con Washington quando ciò era nell’interesse dell’Iran, come nel caso della distruzione del Califfato, ed era pronto a scontrarsi con Washington quando ciò era nell’interesse dell’Iran, come nel caso del sostegno di Soleimani a Bashar el Assad in Siria o, in precedenza, con le modifiche agli ordigni esplosivi improvvisati che hanno ucciso centinaia di soldati statunitensi e ne hanno mutilati altri. L’impunità di Soleimani ha fatto infuriare il Security State e la destra. Il suo successo dava molto fastidio.”
Tuttavia, anche se il potere regionale dell’Iran cresceva, lo facevano anche le tensioni sociali interne. La rivoluzione aveva inizialmente suscitato speranze, ma la guerra con l’Iraq che ne era seguita era stata debilitante. In parte per questo motivo, l’Iran ha assunto una posizione più dura sulla questione nucleare, affermando il suo diritto sovrano di arricchire l’uranio. All’interno, questo è stato visto come un mezzo per riunificare la popolazione. Verso l’esterno, ciò ha uno scopo difensivo perfettamente logico: il Paese è in una posizione vulnerabile, circondato da Stati che detengono armi atomiche (India, Pakistan, Cina, Russia, Israele) e da una serie di basi americane con scorte nucleari potenziali o effettive in Qatar, Iraq, Turchia, Uzbekistan e Afghanistan. Portaerei e sottomarini statunitensi dotati di armi nucleari pattugliano le acque al largo della costa meridionale.
L’Occidente ha dimenticato che il programma nucleare era stato avviato dallo Scià negli anni ’70 con il sostegno degli Stati Uniti. Una delle società coinvolte era un feudo di Dick Cheney, il losco vicepresidente di Bush. Khomeini bloccò il progetto quando salì al potere, considerandolo non islamico. Ma in seguito cedette e le operazioni ripresero. Con l’intensificarsi del programma a metà degli anni 2000, l’Iran e la sua guida suprema si resero conto che i loro tentativi di placare Washington erano stati vani. Erano ancora nel mirino dell’Occidente. La Casa Bianca di Bush dava l’impressione che un attacco diretto degli Stati Uniti contro l’Iran potesse essere imminente o, se non questo, uno portato avanti tramite il suo collaudato intermediario regionale: Israele. Da parte loro, gli israeliani erano ferocemente contrari a chiunque sfidasse il loro monopolio nucleare in Medio Oriente. Il leader iraniano era descritto dal governo israeliano e dai suoi fedeli media come uno “psicopatico” e un “nuovo Hitler”. Si trattava di una crisi creata ad arte, del tipo di quelle di cui l’Occidente è diventato specialista. L’ipocrisia era sbalorditiva. Gli Stati Uniti avevano armi nucleari, così come il Regno Unito, la Francia e Israele; eppure la ricerca da parte dell’Iran della tecnologia necessaria per il più basso livello di autodifesa nucleare provocava il panico morale.
Nella corsa delle potenze europee per migliorare la loro posizione con Washington dopo l’invasione dell’Iraq, Francia, Germania e Gran Bretagna erano ansiose di dimostrare il loro coraggio costringendo Teheran ad accettare limiti rigorosi alla sua attività nucleare. Il regime di Khatami capitolò immediatamente, immaginando di essere stato davvero invitato a rientrare nel gruppo. Nel dicembre 2003 firmò il “Protocollo aggiuntivo” richiesto dall’UE3 [Francia, Germania e Regno Unito, ndt], accettando una “sospensione volontaria” del diritto all’arricchimento garantito dal Trattato di non proliferazione. Anche in questo caso, non fece alcuna differenza. Nel giro di pochi mesi, l’AIEA li condannò per non averlo ratificato mentre Israele si vantava della sua intenzione di “distruggere Natanz”. Nell’estate del 2004, un’ampia maggioranza bipartisan del Congresso statunitense approvò una risoluzione che prevedeva “tutte le misure appropriate” per impedire un programma di armamento iraniano e si ipotizzò una “sorpresa di ottobre” alla vigilia delle elezioni di quell’anno.
All’epoca, scrissi sul The Guardian che “per affrontare i nemici schierati contro l’Iran è necessaria una strategia intelligente e lungimirante, non l’attuale miscuglio di opportunismo e manovre dettate dagli interessi immediati dell’apparato religioso”. Numerosi intellettuali iraniani liberali e socialisti hanno risposto da Teheran esprimendo forte accordo, in particolare con la mia conclusione:
“Spianare la strada al rovesciamento dei regimi baathista iracheno e talebano afghano e sostenere le occupazioni statunitensi non ha portato alcuna tregua. Il sottosegretario di Stato americano ha parlato di ‘aumentare la pressione’. Il ministro della Difesa israeliano Shaul Mofaz ha affermato che ‘Israele non potrà accettare la capacità nucleare iraniana e deve avere la capacità di difendersi con tutti i mezzi necessari, e noi ci stiamo preparando’. Hillary Clinton ha accusato l’amministrazione Bush di ‘minimizzare la minaccia iraniana’ e ha chiesto di esercitare pressioni su Russia e Cina affinché impongano sanzioni a Teheran. Chirac ha parlato di usare le armi nucleari francesi contro un simile ‘Stato canaglia’. Forse si tratta semplicemente di un’esibizione di forza, con l’obiettivo di spaventare Teheran e costringerla alla sottomissione. È improbabile che le intimidazioni abbiano successo. L’Occidente intraprenderà allora una nuova guerra?”
La politica estera degli Stati Uniti è stata sintetizzata in modo appropriato dalla laconica dichiarazione di Bush nel 2003: “Se non siete con noi, siete contro di noi”. Gran Bretagna, Canada, Israele, Arabia Saudita e Australia non avevano bisogno di essere convinti. Ad oggi, l’Iraq non è tornato alla stabilità sociale ed economica che aveva prima del “cambio di regime”. Più di un milione di vittime e cinque milioni di orfani è stato il prezzo che ha dovuto pagare dopo che il suo governo è stato falsamente accusato di nascondere armi di distruzione di massa. Oggi, le compagnie occidentali sottraggono agli iracheni la maggior parte del petrolio estratto.
Molti di coloro che hanno scatenato la guerra in Iraq se ne sono pentiti, ma ciò non ha impedito agli strateghi imperialisti di continuare con la stessa politica altrove. A Gaza, l’orrore continua. Bombe, morti, fame e una crudeltà che ricorda il trattamento riservato dalla Wehrmacht agli Untermensch [sub-umano, ndt] slavi. Il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato un editoriale, più duro di qualsiasi altro apparso sui quotidiani liberali della zona euro-atlantica, che attacca la patetica decisione dei leader europei di sanzionare solo i due fascisti dichiarati del governo Netanyahu e chiede invece sanzioni totali contro Israele stesso. Questo è ciò che dovrebbero chiedere i veri amici di Israele, invece di incoraggiare la sua politica kamikaze e le sue campagne genocidarie.
Dopo il successo quasi totale di Israele nel radere al suolo la Striscia di Gaza e sterminare decine di migliaia dei suoi abitanti, il governo Netanyahu ha chiaramente ritenuto che fosse giunto il momento di espandere la guerra ad altri obiettivi. Prima c’è stata la campagna dell’IDF contro Hezbollah, che ha ucciso gran parte della sua leadership e ha lasciato l’organizzazione notevolmente indebolita, mettendo il Libano in ginocchio. (Non sorprende che da allora i giovani libanesi siano saliti sui tetti delle loro case per acclamare i droni iraniani). Poi è stata la volta della Siria, dove Israele ha lanciato diversi attacchi senza nemmeno fingere che si trattasse di autodifesa. In collaborazione con la Turchia, membro della NATO, e i resti dell’apparato baathista, Israele ha contribuito a insediare un governo fantoccio guidato da un ben addestrato tirapiedi degli Stati Uniti, l’ex membro di al-Qaeda Jolani.
Il terreno era ormai pronto per l’assalto all’Iran. Come sempre, quando c’è di mezzo Israele, entrano in gioco i doppi standard occidentali. Israele non ha aderito al Trattato di non proliferazione nucleare, non ha firmato la Convenzione sulle armi biologiche e la Convenzione di Ottawa [trattato internazionale che vieta l’uso, la produzione, lo stoccaggio e il trasferimento di mine antiuomo e ne impone la distruzione firmata a Ottawa, in Canada, il 3 dicembre 1997, ndt], non ha ratificato la Convenzione sulle armi chimiche e da decenni ignora il diritto internazionale e le risoluzioni dell’ONU, con mandati di arresto della Corte internazionale di giustizia ora emessi contro Netanyahu e Gallant per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, oltre a un’indagine in corso per genocidio… Ecco qual è il volto di uno Stato canaglia.
I due Paesi stanno attualmente comunicando tramite droni, F35 e missili. Sia Teheran che Tel Aviv hanno subito colpi. L’obiettivo dichiarato da Israele di distruggere i reattori nucleari non è stato raggiunto e la vanteria di Netanyahu di voler portare a un cambio di regime ha prodotto l’effetto opposto. Donne senza hijab hanno manifestato per le strade, gridando “Dateci una bomba atomica”. Una di loro ha detto a un giornalista: “In parlamento stanno discutendo della chiusura dello Stretto di Hormuz. Non c’è bisogno di discutere. Chiudetelo e basta”. Trump insiste che la guerra potrà finire solo quando Teheran si arrenderà completamente. Molti iraniani oggi credono che i recenti negoziati sul nucleare siano sempre stati una finta. Nel 2020, Trump ha usato tattiche simili per portare a termine l’assassinio di Soleimani, convincendo il primo ministro iracheno a fungere da mediatore nei colloqui tra Stati Uniti e Iran in modo da attirare il generale a Baghdad. Finora gli iraniani hanno resistito all’assalto. Il Paese che ha urgente bisogno di un cambio di regime è Israele.