Proponiamo la traduzione italiana di un articolo di Yasmin Nair, “The Politics of storytelling”, pubblicato sul suo blog il 18 giugno 2012. Trovate la versione originale qui.
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Nota: questo articolo è il risultato di un lavoro risalente a qualche tempo fa. Si tratta della breve presentazione che ho tenuto il 27 maggio a “Queer is Community”, un evento organizzato dalle comunità queer locali di Chicago per affrontare efficacemente i problemi di razzismo e omofobia che si presentano ogni estate nel quartiere gay di Chicago, Boystown (noto anche come Lakeview). L’ho modificato solo leggermente, quindi sembra più un discorso o una conferenza che una mia usuale opera scritta – ho pensato che fosse meglio preservare lo spirito con cui è stato presentato. In allegato c’è un link a un pezzo che contestualizza i recenti problemi che Gender JUST ha avuto con il Center on Halsted, il più grande centro LGBT della città. Vi invito a leggere anche questo articolo e firmare la relativa petizione.
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Vorrei innanzitutto ringraziare coloro che hanno organizzato questo evento. So per esperienza quanto sia difficile realizzare una cosa del genere. Mi è stato chiesto di parlare delle mie esperienze e di raccontare la mia storia. Sono grat* per questa opportunità e onoro le storie di coloro che sono qui stasera. So quanto sia importante raccontare storie che altrimenti non vengono ascoltate o vengono ignorate, a nostro discapito, ma oggi sono qui per parlare contro lo storytelling come strategia politica.
In generale, non uso le mie esperienze per promuovere il cambiamento perché, francamente, so che per quanto orribile possa essere la mia storia per alcun* di voi, ci saranno sempre altr* pront* a sminuirla, a considerarla non abbastanza importante o a insistere sul fatto che ce n’è una di gran lunga peggiore, che merita maggiore attenzione e i cui personaggi meritano letteralmente la vita piuttosto che la morte. Soprattutto, però, le storie ci aiutano a dimenticare le forme sistemiche di sfruttamento e oppressione che ci circondano e in cui siamo tutt* coinvolt*. Nonostante ciò, negli ultimi anni, lo storytelling si è sostituito all’analisi politica, soprattutto tra coloro che si considerano di sinistra e soprattutto tra le persone di colore.
Le storie possono sempre essere contrastate con storie e personaggi diversi. Sono critic* nei confronti del movimento dei matrimoni gay e uno dei miei argomenti è che nessuno dovrebbe sposarsi per ottenere l’assistenza sanitaria in un Paese che, sempre più spesso, costringe le persone a sposarsi per avere la stessa assistenza. Scrivo spesso su cosa significhi vivere e affrontare la morte senza assistenza sanitaria, semplicemente per illustrare che il matrimonio non farebbe alcuna differenza per me in questo senso, né per innumerevoli altre persone. In risposta, mi viene semplicemente detto, più e più volte, che questo è il costo della maturità. Mi vengono raccontate storie di persone che “sono morte perché non potevano sposarsi e avere l’assistenza sanitaria”. Nel frastuono crescente di lacrime e pianti che una storia del genere evoca inevitabilmente, nessun* si preoccupa di ascoltare la verità, la verità assolutamente semplice: non è la mancanza di matrimonio che ti ucciderà, ma la mancanza di assistenza sanitaria.
Le storie forniscono una copertura, nascondono la verità dell’imperialismo, della guerra e della carneficina. Dan Choi racconta la sua storia di coreano-americano nato in una famiglia di fede battista, in cui non si è mai sentito a suo agio nell’essere gay dichiarato, e di quanto sia orgoglioso di essere un soldato gay dichiarato, e che la guerra è una forza che ci dà significato, e che vuole semplicemente combattere per questo Paese e usare le sue conoscenze linguistiche per continuare a imprigionare gli iracheni, aiutarli a salvare il loro Paese, sempre ribadendo che la guerra è una forza che ci dà significato. La presentatrice che lo ospitava nel suo programma, la famosa Amy Goodman, contraria alla guerra, non ha mai battuto ciglio né gli ha chiesto: “Davvero pensi che la guerra vada bene? E l’hai detto in questo programma, il mio programma, dove presento storie critiche nei confronti della guerra?” Al contrario, la conduttrice scrive un editoriale, lodandolo per il suo servizio al Paese e per il suo impegno. La storia del suo essere gay e asiatico-americano, e triste e patetico, cancella il fatto che sia un imperialista guerrafondaio, che giustifica la carneficina di milioni di persone in nome di una guerra giusta.
Le storie ci separano in persone buone e cattive. Nelle storie di persone prive di documenti, l’essere queer diventa un altro modo per stuzzicare i nostri cuori. Oggi student* gay, lesbiche e queer senza documenti usano la retorica del “coming out” e dell’essere brav* giovani che diventeranno il personale medico o d’avvocatura di domani, “le persone buone”. Rivendicando il “coming out” come strategia – travestito da semplice storia e reinventando una storia di liberazione gay come se questa storia fosse rimasta sempre la stessa dagli anni ‘70 – sono in grado di chiedere solidarietà su due basi diverse: sono loro le persone queer, e quindi meritevoli di sostegno da parte di una comunità gay che altrimenti, come sappiamo, è profondamente conservatrice e spesso razzista. Quando si radunano davanti ai tribunali con le loro tuniche e i loro cappelli da diploma, implicitamente sostengono che non sono affatto come l* cattiv* ragazz*, come l* student* fannullon*, come quelle persone che potrebbero non arrivare a nulla dopo la scuola superiore, come quelle persone che non riescono a trovare l’energia per fare tre lavori o quelle che si rifiutano di sostenere senza riserve un Paese di cui non condividono la politica estera. In questa narrazione dimentichiamo o ignoriamo i fatti: che ci sono student* senza documenti che se ne fregano di essere l* “immigrat* buon*”, che non si scusano per i loro slogan contro la guerra anche quando si trovano sulla corsia preferenziale per la deportazione – questi sono l* student* di cui non si parla sulle pagine di The Nation, che non vengono proclamat* eroi o eroine, che non vengono salvat* dagli appelli su Change.org.
Le storie possono essere delle menzogne. Come alcuni di voi sanno, ero tra coloro che non volevano che questo evento si tenesse in questa sede. Il Center on Halsted ha recentemente parlato di giustizia riparativa, in un’intervista al Windy City Times. Noi di Gender JUST e alcun* dell* operator* e organizzator* giovanili del Centro sappiamo che questo non è vero, che si tratta di una palese menzogna: è dal 2010 che cerchiamo di far sì che il Centro introduca la giustizia riparativa nei suoi metodi di lavoro con i giovani che sostiene di servire. La storia della giustizia riparativa, la finzione che il Centro lavori in modo corretto con le persone giovani, è un altro modo per fingere che il Centro lavori per tutte le persone.
Non è che le storie non abbiano il loro posto; possono servire come contro-narrazione alle finzioni dominanti che strutturano le nostre vite e che altrimenti coprirebbero le menzogne che la gente racconta. Mi vengono in mente le storie a cui non abbiamo accesso o quelle che ci rifiutiamo di ascoltare. Potrei raccontarvi la storia di un vicino che si lamentava del fatto che il negozio di tatuaggi in fondo alla strada attirava i Latin King e che il suo condominio era stato svaligiato dai latinos che arrivavano nel quartiere, e di come fosse irremovibile nel credere che la colpa fosse del proprietario dello stabilimento balneare del nostro quartiere, che aveva affittato lo spazio al negozio di tatuaggi, e che la colpa dei furti fosse dei Latin King e, di conseguenza, dei latinos. Settimane dopo, mentre tornavo a casa nelle prime ore del mattino, lo vidi emergere da dietro il cassonetto del mio palazzo, nel vicolo tra le nostre case, mentre, ubriaco, dava di nascosto dei soldi a un giovane latino per… un pompino? Droga? Entrambe le cose? Difficile dirlo.
Alcune storie devono essere raccontate perché senza di esse dimenticheremmo la tristezza e la forza di quei luoghi a cui non ci va mai di pensare. C’è la storia di Victoria Arellano, una donna transgender sieropositiva senza documenti che è morta incatenata al letto in una prigione dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement – Ufficio Immigrazione e Controllo Doganale), a causa dell’incuria e della mancanza di farmaci per l’HIV, mentre i medici della prigione si rifiutavano di prescriverle altro che Amoxicillina, Tylenol e acqua. È morta di patologie infettive, polmonite e meningite il 20 luglio 2007; è morta a causa della profonda negligenza favorita da un sistema di detenzione per immigrati.
C’è la storia, meno nota, di un’ottantina di persone detenute con lei che le si strinsero attorno nelle ultime settimane, cantando e gridando alle guardie di portarla in ospedale finché la prigione non acconsentì, di persone detenute che inumidirono i loro asciugamani per ridurre la febbre e la aiutarono a camminare fino al bagno. Dopo la sua morte e dopo aver parlato di lei con i giornalisti, molte o la maggior parte di loro sono state punite con il ritiro del telefono o con l’isolamento; a quelle che ne avevano bisogno sono stati negati i farmaci per l’HIV per due settimane. Raccontando questi particolari, Michelle C. Potts scrive: “Voglio ricordare Victoria Arellano e la sua storia. Voglio ricordare le ottanta persone detenute che chiedevano il suo diritto a vivere… Non voglio romanzare la sua morte o quelle persone che erano lì per le ultime otto settimane, ma voglio dare il giusto valore alla solidarietà e alla cura con cui l’hanno trattata ed estendere queste forme di resistenza al più ampio progetto di abolizione della prigione”1.
Le storie, quelle migliori, quelle che parlano di ciò che potremmo chiamare verità, dovrebbero evocare il contesto e la politica del tempo in cui avvengono. Siamo all’interno del Center on Halsted, nel cuore di Boystown, nel North Side di una città che è stata descritta come la più segregata del Paese. Se non lo facciamo già, dobbiamo ammettere la dura verità nascosta da quella parola, “segregato”, e ammettiamo, una volta per tutte, che Chicago è stata identificata come la città più razzista del Paese. Se siete una persona di colore che vive qui, conoscete il costo psicologico di vivere in una città in cui ogni vostra mossa e abbigliamento e, sì, anche i capelli, vengono esaminati e considerati inappropriati e non appartenenti al contesto.
Mentre andiamo avanti con questa serata, per favore, non facciamoci scoraggiare di fronte a questa dura verità. Mentre andiamo avanti oggi nel tentativo di capire perché questo quartiere e questa città esplodano ogni estate con odio, intolleranza e paura, ricordiamo e teniamo a mente che gran parte di ciò che galvanizza tutto questo è una forma pura e violenta di razzismo schiavile, una rabbia per il fatto che alcun* di noi – del colore sbagliato, del genere sbagliato, del sesso sbagliato, della classe sbagliata, quelle persone che semplicemente non sembrano giuste per un milione di ragioni – semplicemente non riconoscono il proprio posto. Finché non riconosceremo la verità di ciò che ci circonda, non potremo andare avanti. L’idea stessa di comunità queer può essere una finzione. In un mondo in cui essere “queer” non significa più detenere o aderire a un’identità stabile e immutabile, mi chiedo spesso perché uso ancora questa parola per descrivermi, come faccio personalmente. Non vedo “queer” come un termine che cambia il mondo in sé, come un termine intrinsecamente liberatorio, come un termine intrinsecamente maggiormente capace di cambiare e creare sconvolgimenti, come dovremmo. Eppure la vedo come una forma di resistenza.
Con questo non voglio dire che non dovremmo raccontare le nostre storie e parlare delle nostre esperienze. Ma invito tutt* noi qui stasera a pensare ai contesti e alle oppressioni sistemiche che circondano le nostre storie. Non siamo legat* dalla verità o dall’universalità delle nostre esperienze, perché le nostre esperienze non sono universali. Siamo invece unit* dai legami sistemici tra le oppressioni che ci schiacciano. Ci chiedo anche di ricordare che spesso siamo agenti consapevoli o inconsapevoli delle stesse oppressioni a cui diciamo di resistere.
La resistenza è queer? Non lo so. Ma se devo essere queer, sarò dannatamente resistente.
- Michelle C. Potts, “Regulatory Sites: Management, Confinement, and HIV/AIDS”, Captive Genders: Trans Embodiment and the Prison Industrial Complex, edited by Eric Stanley and Nat Smith ↩︎