Traduciamo e pubblichiamo questa conversazione tra Lama El Khatib, scrittrice e lavoratrice culturale, e Basil Farraj, docente all’università di Birzeit e ricercatore sulle pratiche carcerarie. La versione originale è apparsa il 5 maggio scorso su Weird Economies.
Regimi carcerari estesi: passato e presente
Lama El Khatib: Il punto di partenza della nostra conversazione di oggi è una domanda su come la congiuntura contemporanea di sterminio di massa della vita palestinese sia connessa e implicata nelle reti globali del capitale da diverse angolazioni. Questa analisi pone le basi per studiare e ipotizzare modi per continuare a resistere. Uno dei principali campi di battaglia di questi intrecci in Palestina è, ovviamente, il sistema carcerario.
Per cominciare: parliamo del presente. Forse puoi approfondire il ruolo che la carceralità gioca oggi a Gaza e nel genocidio in corso, ma anche come questa violenza genocida si espanda attraverso la carceralità ad altre geografie della Palestina. Un modo per radicare la domanda nelle condizioni materiali è guardare a come le carceri, o la situazione delle varie forme di detenzione, si siano deteriorate negli ultimi mesi.
Basil Farraj: Se vogliamo analizzare il momento attuale e capire come si sta svolgendo questo genocidio nella Striscia di Gaza e in Palestina più in generale, dobbiamo esaminare la realtà più ampia in cui vivono i palestinesi.
La nozione di carceralità è qui onnicomprensiva, perché nel contesto palestinese (e non solo), la prigione non è solo lo spazio fisico del carcere: è la trasformazione dell’intera geografia della Palestina in luoghi carceralizzati. Che si tratti della Striscia di Gaza, della Cisgiordania, dei checkpoint, del muro, delle colonie o degli stessi spazi di reclusione, il regime israeliano ha continuamente utilizzato queste diverse configurazioni spaziali e legali per imprigionare coloro che definisce “pericolosi per la sua sicurezza”. Si tratta anche di una pratica storica, così come storica è la sua funzione. Dal 1948 quasi un milione di palestinesi sono stati imprigionati dalle autorità israeliane. Le campagne di arresti e detenzioni si sono fortemente intensificate dopo il 7 ottobre. Da allora, più di 10.000 palestinesi sono stati arrestati, andandosi a sommare al numero imprecisato di palestinesi della Striscia di Gaza già prigionieri nei centri di detenzione israeliani. Durante tutto il genocidio, i prigionieri palestinesi sono stati sottoposti a condizioni sempre più brutali e i loro diritti – anche se già minimi – gli sono stati completamente strappati di dosso.
La Striscia di Gaza è un esempio chiave di come le popolazioni siano state continuamente intrappolate. Tutti ricordiamo le affermazioni dei ministri israeliani che dichiarano un assedio totale sulla Striscia: niente acqua, niente elettricità, niente carburante. Dobbiamo ricordare che Israele controlla queste risorse in tutta la Palestina storica, e che come tale esercita un potere sul sostentamento dei palestinesi nell’intera area.
È in questo contesto che vediamo il ricorso del regime israeliano a molteplici modalità di violenza: bombardamenti, esecuzioni extragiudiziali, distruzione di abitazioni e infrastrutture.
LEK: Forse potremmo dedicare un po’ più di tempo a quelli che hai definito regimi carcerari estesi o al modo in cui i regimi carcerari vengono attuati e applicati attraverso modalità multiple. Si tratta di regimi estesi storicamente (nel senso che sono persistiti in forme diverse nel tempo) ma anche estesi spazialmente: hanno un aspetto molto diverso in diverse parti della Palestina storica e assumono varie forme.
Ma questa realtà presenta anche un’immagine speculare: la questione delle prigioni e dei prigionieri è anche centrale per la resistenza palestinese sia storicamente che al giorno d’oggi. La richiesta di liberazione dei prigionieri è sempre una rivendicazione centrale per la resistenza palestinese nelle sue molteplici forme. E la prigione, in questo senso, gioca un ruolo speciale nella formazione di una soggettività politica definita o impegnata nella liberazione della Palestina. È per questo motivo che molti prigionieri e studiosi hanno notato che le prigioni funzionano anche come un modo per catturare e intrappolare la soggettività politica. Attraverso questa dinamica diventa quindi chiaro, credo, che la prigione non è una misura di sicurezza quanto piuttosto una misura di cattura, o piuttosto di recisione (uccisione), dell’orizzonte politico della Palestina.
BF: A partire dall’occupazione della Palestina, il regime coloniale ha trasformato le aree che chiamiamo del 1948 in zone sottoposte al regime militare israeliano, e i palestinesi rimasti in queste città e villaggi in soggetti sottoposti alle norme e ai regolamenti del governo militare. Questa logica è stata estesa dopo l’occupazione del 1967 al resto della Palestina, dove la popolazione palestinese è governata attraverso leggi e direttive militari. Ciò implica un articolato sistema di meccanismi legali e burocratici per il governo della vita dei palestinesi, che comprende tutti gli aspetti della loro realtà quotidiana: i luoghi in cui possono recarsi, il diritto di andarsene, la possibilità di attraversare determinati posti di blocco, ecc. Questo livello di carceralità è storico. Era già presente e continua a essere rafforzato. La Cisgiordania è stata interamente frammentata in piccole sacche isolate in cui non ci si può realmente muovere o spostare.
Si tratta di un tentativo di rimodellare la soggettività politica dei palestinesi, non di un semplice processo di privazione dei diritti dei colonizzati. Ha una funzione politica più profonda. Ti dice: “Non è previsto che tu sia libero; non sei un soggetto politico”. Così il regime israeliano ricorre a pratiche carcerarie non solo per detenere i palestinesi, ma per privarli della natura politica della loro esistenza. Naturalmente, il regime israeliano non è mai riuscito a farlo completamente.
Accanto alla dimensione burocratica e giuridica, i regimi carcerari operano attraverso la trasformazione della geografia della Palestina nella sua interezza. In tutta la Cisgiordania, la geografia è trafitta da torri militari, checkpoint, insediamenti e strade inaccessibili. Ai palestinesi viene negata l’autonomia e la sovranità sulla terra, sull’aria e sull’acqua. Ma perché tutto questo? È un tentativo di dire ai palestinesi che ogni aspetto della loro vita è sotto il controllo di Israele, un modo per spezzare lo spirito combattivo della popolazione. Come sappiamo da altre storie coloniali, però, quando a una popolazione indigena viene negato l’accesso alla terra si tratta anche di un intervento sul tempo, volto a separarla dal suo passato e a dominarne il futuro. Israele continua inoltre a trattenere i corpi di coloro che sono morti nelle carceri israeliane. I regimi carcerari sono un’affermazione di potere sul passato, sul presente e sul futuro dei palestinesi.
Il celebre prigioniero palestinese Walid Daqqa, ucciso all’interno delle carceri israeliane per la negazione di cure mediche, parlava continuamente della logica della piccola e della grande prigione e dei modi in cui la carceralità funziona per catturare il tempo.1 La grande prigione: la geografia legale e politica della Cisgiordania, di Gerusalemme, di Gaza e delle aree del 1948. E poi c’è la piccola prigione, dove si è sottoposti a varie pratiche che hanno la stessa funzione: convincere la popolazione – o almeno tentare di convincerla – che non vale la pena resistere all’occupazione.2
C’è molto da dire anche sul ruolo dell’Autorità Palestinese all’interno di questo paesaggio carcerario. Le pratiche carcerarie sono fondamentali per il funzionamento dell’Autorità Palestinese, che arresta costantemente attivisti, dissidenti e militanti palestinesi, pur non avendo una reale sovranità su alcuna parte dei territori palestinesi. Eppure essa cerca di comportarsi come uno “Stato”.
Il carcere come luogo di generazione di valore
LEK: Proviamo a cogliere il rapporto tra questo progetto politico di carceralità e la più ampia questione finanziaria degli interessi del capitale. Ci sono due questioni che si intrecciano. La prima è il modo in cui il carcere funziona anche come sito per lo sviluppo di tecnologie, infrastrutture di sorveglianza, ecc. che vengono vendute e generano un’infrastruttura economica. Ma la seconda domanda vuole riflettere sui modi in cui i prigionieri sono sottoposti a pratiche di generazione di valore: ad esempio, in che modo il loro lavoro fa parte dell’economia carceraria e dell’economia israeliana più in generale?
BF: Vorrei innanzitutto sottolineare che dal 7 ottobre il contesto della detenzione è cambiato. Un esempio è la mensa, dove i prigionieri erano soliti acquistare beni per soddisfare i loro bisogni primari. Dal 7 ottobre la mensa è stata chiusa in tutte le carceri, nel contesto di un più ampio attacco ai prigionieri palestinesi che ha trasformato l’intero spazio della prigione in uno spazio di reclusione ancora più fortificato. I prigionieri sono stati isolati dal mondo esterno, hanno ricevuto cibo razionato al minimo, sono stati torturati e hanno avuto accesso limitato all’acqua e all’elettricità. C’è un uso sistematico della fame e della privazione delle cure mediche. Il momento attuale – nelle parole dei prigionieri e di coloro che sono stati liberati – è quindi senza precedenti.
Ma per comprendere le carceri israeliane dal punto di vista economico, dobbiamo andare a prima del 7 ottobre. L’occupazione traeva vantaggio dal sistema carcerario stesso – in maniera abbastanza simile a come il complesso carcerario-industriale negli Stati Uniti genera valore, anche se con meccanismi e scale diverse. Ciò è avvenuto attraverso la privatizzazione del sistema carcerario e la fondazione dell’Israel Prison Service (IPS), che a partire dal 2000 ha assunto il controllo della maggior parte delle strutture carcerarie israeliane. Anche la mensa è stata resa un’infrastruttura privatizzata. Nei decenni precedenti, dovevano essere le forze di occupazione a fornire ai prigionieri cibo, sigarette e altri beni di prima necessità, oppure farlo attraverso il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Il passaggio alla privatizzazione dei servizi ha fatto sì che i prigionieri palestinesi dovessero pagare prezzi estremamente alti per i prodotti di base, per i quali le loro famiglie inviavano loro il denaro. Ricevendo questo sostegno economico via posta direttamente sui loro conti mensa, i prigionieri usavano queste risorse – collettivamente o individualmente – per coprire i propri bisogni.
In un certo senso, come Walid Daqqa descrive in Consciousness Molded or the Re-identification of Torture3, la prigione forniva un’illusione di autonomia ai detenuti, dal momento che potevano acquistare da soli ciò che volevano. Ma allo stesso tempo intere famiglie e reti sociali sono diventate i fornitori di un sostegno economico continuo ai prigionieri per avere accesso alle più elementari forme di sostentamento e di vita. Così, il regime israeliano ha catturato reti sociali più ampie, ottenendo che lo scopo politico della prigione si estendesse anche alla produzione di conseguenze economiche durature per i prigionieri incarcerati e per le loro famiglie “all’esterno”.
LEK: Prima del passaggio alla privatizzazione, esistevano altri modelli redditizi? E la questione del lavoro in carcere?
BF: A partire dal 1948, i palestinesi imprigionati nei campi di internamento sono stati costretti a lavorare, confezionando abiti o cucendo alcuni articoli per le forze di occupazione israeliane (IOF), tra le altre mansioni. Ma i prigionieri si ribellarono perché, nel contesto di questa fase del movimento dei prigionieri, c’erano continue rivolte e proteste contro qualsiasi forma di sfruttamento del lavoro palestinese.
Una seconda fase può essere individuata tra il 1967 e i primi anni Settanta, quando i prigionieri furono sottoposti a lavori forzati e non retribuiti, con particolare attenzione alla produzione di attrezzature militari per l’IOF e alla manutenzione delle prigioni. A partire dagli anni Settanta, e a seguito degli scioperi della fame, lo sfruttamento della manodopera carceraria sarebbe lentamente diminuito, fino ad arrestarsi nel 1980. In sostituzione di questa dipendenza dalla manodopera, il sistema delle mense assunse un ruolo economico più rilevante, servendo esclusivamente i bisogni dei detenuti a partire dagli anni Novanta.4
Globalizzare il carcere e i metodi carcerari
LEK: Forse possiamo guardare a quest’altro aspetto della funzione economica del carcere, che è anche ciò che collega le industrie dei regimi carcerari israeliani ad altri contesti. Mi riferisco alle tecnologie di sorveglianza e sicurezza che vengono poi vendute, o alle forme di addestramento che vengono esportate o scambiate.
In che modo generano profitto questi regimi carcerari, e in che modo funzionano come nodi del capitale globale?
BF: Israele viene continuamente descritto come uno “stato di sorveglianza” o uno “stato di sicurezza” che produce tecnologie di sorveglianza, saperi securitari e armi. Lo status globale di Israele come stato di sicurezza è testimoniato dai profitti ottenuti dall’esportazione di armi e tecnologie, tra cui, ad esempio, il programma di spionaggio Pegasus. Questo status viene guadagnato attraverso la conversione della popolazione palestinese, e della sua terra, in un luogo dove le tecnologie vengono testate e successivamente vendute come “affidabili”. Il regime israeliano si è espanso in numerose parti del mondo, vendendo i suoi prodotti e le sue tecnologie, tra gli altri, in America Latina, all’India e agli Stati Uniti. La relazione militare tra gli Emirati Arabi Uniti e il regime israeliano continua a crescere ed espandersi e gli Emirati Arabi Uniti continuano a fornire al regime israeliano uno spazio per esibire le proprie armi e tecnologie in occasione di diverse fiere sulla sicurezza.5 Ma questo non è solo un fenomeno recente. Un documento declassificato della CIA allude direttamente al ruolo di Israele, ad esempio, nel trasferimento di armi al violento regime di Augusto Pinochet in Cile.6
Oltre all’industria delle armi, Israele ha anche addestrato i paramilitari in Colombia. Gli Stati Uniti hanno imparato da Israele a condurre la cosiddetta “guerra al terrorismo”. In Iraq, ad esempio, hanno trasformato diverse aree in zone bloccate e separate che rispecchiano ciò che Israele ha fatto in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Per questo è così importante affrontare l’economia politica delle violente strumentazioni belliche di Israele. Le armi e le tecnologie israeliane, così come le sue strategie e politiche, sono continuamente rese disponibili a Stati e gruppi oppressivi di tutto il mondo.
LEK: È molto interessante il modo in cui parli della circolazione di questi modelli. Per i prigionieri negli Stati Uniti, in particolare per quelli neri, la relazione tra incarcerazione e guerra è ovvia. Orisanmi Burton sostiene – attraverso la sua mappatura della rivolta della prigione di Attica – che “la prigione è guerra”.7 Possiamo sostenere che l’inseparabilità di queste due industrie è forse più evidente nei contesti coloniali di insediamento, ma la carceralità in quanto tale, credo, è sempre il rovescio della medaglia di una macchina bellica.
Mappare la resistenza nelle carceri
LEK: I detenuti hanno usato pratiche diverse per contrastare i vari livelli e le varie forme del sistema carcerario. Possiamo tracciare una sorta di storia della resistenza che si sviluppa in parallelo alle mutevoli modalità di detenzione e alle pratiche carcerarie?
BF: Le pratiche di resistenza sono emerse continuamente e hanno rispecchiato la realtà della reclusione. Negli anni Settanta, i prigionieri palestinesi erano costretti a rivolgersi al loro carceriere dicendo “sì, signore” e ad abbassare la testa mentre camminavano. I prigionieri palestinesi della prigione di Asqalan si ribellarono a queste condizioni disumane nel luglio 1970 e iniziarono uno sciopero della fame. Allo stesso tempo, chiesero anche l’accesso a libri, penne, matite e giornali. Hanno poi intrapreso diversi scioperi della fame, ancora nel 1973 e nel 1976, soprattutto per affermare il loro potere e la natura politica della loro detenzione. Le autorità israeliane hanno cercato di reprimere queste pratiche con una violenza sfrenata. Un caso critico è quello del gazawi Abdul Qader Abu al-Fahem, ucciso con l’alimentazione forzata durante lo sciopero della fame del 1970 – il primo prigioniero palestinese a morire in seguito a uno sciopero della fame.8
La lotta all’interno delle carceri ha continuato a evolversi nel tempo in risposta al mutare delle condizioni, comprese le rivolte contro le limitazioni alle visite in carcere, il rifiuto di comunicare con i familiari e le forme arbitrarie di detenzione. Gli scioperi della fame, oltre alle altre forme di insurrezione, consentono ai prigionieri palestinesi di rientrare nella sfera della politica e di affermare un’agency collettiva che il regime israeliano ha continuamente cercato di negare. Contro la definizione di “prigionieri di sicurezza”, si insiste nel sostenere la natura politica della loro detenzione.
LEK: Che ne è di queste modalità di resistenza oggi? Quali forme di organizzazione persistono?
BF: Dall’inizio del genocidio, Israele ha trasformato le prigioni in un’altra zona di guerra. Almeno 58 prigionieri palestinesi sono stati uccisi9 nelle carceri israeliane, a causa di torture e negligenze mediche. Uno dei prigionieri della prigione di Naqab, Thaer Abu Asab, è stato picchiato e ucciso10 da 19 guardie israeliane dopo che aveva chiesto se un cessate il fuoco fosse vicino. Altri prigionieri sono stati uccisi perché lasciati fuori al sole. Ad alcuni prigionieri sono stati amputati gli arti a causa della scarsa qualità o addirittura della mancanza di cure mediche.
Dico tutto questo e fornisco questi dettagli per arrivare alla questione dell’organizzazione. La resistenza all’interno delle carceri oggi non è più come in passato e questo è dovuto a due ragioni principali: la prima è che i detenuti si rendono conto che in questo momento qualsiasi tentativo di organizzarsi è difficile, date le attuali condizioni carcerarie. La seconda ragione è che i detenuti sentono, o credono, che la loro liberazione sia vicina. Molti si aggrappano alla speranza di essere liberati durante un eventuale cessate il fuoco o un accordo di scambio di prigionieri. Abbiamo già visto immagini di palestinesi liberati nell’ambito degli accordi di cessate il fuoco.
Ciò non toglie che da parte dei detenuti rilasciati ho anche potuto sentire una perseveranza nell’escogitare modi di sovvertire l’autorità carceraria. Credo che questo dato sia costante.
LEK: Voglio solo ribadirlo: la storia delle carceri israeliane è una storia di annientamento a livello di vita, di mezzi di sussistenza e di soggettività politica. Ma è anche una tradizione di resistenza trasmessa e portata avanti attraverso le varie vite e reti che sono sottoposte ai suoi meccanismi. Perciò l’organizzazione è sempre una minaccia, poiché il carcere cerca di creare un ambiente che isola e frammenta la collettività. Per pensare a questo, mi vengono in mente le parole di Layan Kayed, nuovamente arrestato nel giugno 202311: “La prigione vuole isolarti dal tuo popolo e dalla tua patria, così come vuole estraniarti dal tuo sogno di credere che “la prigionia” sia il luogo dei sognatori. Allo stesso modo vuole allontanarti dagli altri prigionieri e dalla loro eredità, sostenendo che la revoca di un privilegio è il risultato dell’uso improprio che ne hanno fatto altri detenuti. Ma tu, enormemente grata, sappi che senza anni di lotta e di sacrificio, la vita in carcere non sarebbe mai stata sopportabile”.12
Solidarietà: sulla costruzione della soggettività politica palestinese altrove
LEK: Un punto interessante da sollevare qui sarebbe quello relativo all’espansione globale della criminalizzazione intorno alla Palestina che ora arriva fino all’arresto e alle minacce di incarcerazione, che colpiscono i movimenti di solidarietà con la Palestina. Ciò sembra essere parte del progetto di annientamento della soggettività politica palestinese (sia in Palestina che altrove). Tuttavia, persistono forme di solidarietà.
A questo proposito, potrebbe essere utile citare alcuni esempi del passato o del presente in cui un movimento globale (che interviene a livello economico, elaborando ad esempio strategie di pressione per il disinvestimento, ecc.) ha avuto efficacia nell’interruzione di infrastrutture o tecnologie carcerarie. Un caso che mi viene in mente è la campagna STOP G4S, lanciata nel 2012 in parallelo e in risposta allo sciopero della fame avviato dai prigionieri palestinesi. La campagna ha cercato di fare pressione sulla società di sicurezza G4S, una delle più grandi al mondo, affinché tagliasse i suoi legami con le infrastrutture carcerarie e di polizia israeliane. Collegandosi direttamente alle pratiche dei prigionieri all’interno, la campagna ha mobilitato diverse aziende a disinvestire da G4S, portando l’azienda a vendere la sua filiale israeliana nel 2016. L’azienda è ancora parzialmente proprietaria dell’Accademia nazionale di polizia israeliana e fornisce formazione alla polizia, ma la campagna globale STOP G4S rimane un esempio cruciale di un’interruzione globale e di uno storico legame tra la prassi politica delle persone incarcerate in collaborazione con quelle solidali.
BF: Vorrei anche evidenziare altri esempi di solidarietà che funzionano a diversi livelli. Durante i famosi scioperi della fame del 2014, c’è stata una percezione e comprensione globale delle lotte dei prigionieri palestinesi. Il fatto che si trattasse di una lotta politica per la liberazione ha fatto emergere connessioni e intersezioni con altre lotte, a cui i palestinesi continuano a fare riferimento. Tra queste, ad esempio, lo sciopero della fame irlandese del 1981, che ha ispirato i prigionieri palestinesi e le loro pratiche di sciopero della fame. Solo per condividere un aneddoto: un libro scritto da uno dei prigionieri sopravvissuti allo sciopero della fame irlandese del 1981 è arrivato in una delle prigioni israeliane. In seguito è stato tradotto in arabo e utilizzato come materiale didattico su come organizzare efficacemente uno sciopero della fame e su come imparare dall’esperienza irlandese.
Orizzonti persistenti di abolizionismo?
LEK: Alcuni mesi fa, diversi prigionieri palestinesi sono stati rilasciati attraverso accordi di scambio che hanno aperto, o continuano ad aprire, un orizzonte abolizionista. Come hai già detto, molti prigionieri continuano ad aggrapparsi a questa speranza. Sto pensando a dove si collocano questi rilasci all’interno di un progetto più ampio di abolizione del carcere e se quest’ultima rappresenta qualcosa nella coscienza dei prigionieri stessi, dato che hai menzionato che molti prigionieri non vedevano l’ora di raggiungere una libertà che sentivano vicina.
BF: Lo scambio di prigionieri avvenuto nel novembre 2023 sta dando a tutti i prigionieri palestinesi la speranza di essere liberi. Il regime israeliano è già stato costretto a rilasciare centinaia di prigionieri, molti dei quali stavano scontando l’ergastolo.13
C’è una storia in tutto questo. Negli ultimi decenni migliaia di prigionieri palestinesi sono stati rilasciati attraverso scambi di prigionieri e accordi in tal senso. Dal 1948, ci sono stati almeno 40 scambi di prigionieri, compreso il più recente che ha visto il rilascio di oltre 30.000 prigionieri palestinesi.14 Quello a cui stiamo assistendo oggi, e con la prospettiva di ulteriori scambi, potrebbe essere il più grande rilascio nella storia palestinese.
Per capire la questione, dobbiamo osservare i modi, ovviamente ingiusti, in cui Israele emette sentenze estremamente pesanti. Tra queste, vi sono le condanne multiple all’ergastolo; alcune di queste riguardano detenuti arrestati prima della firma degli accordi di Oslo nel 1993. Walid Daqqa ne è un esempio: ha trascorso oltre 38 anni in cattività prima di essere ucciso dal regime carcerario israeliano.
Penso che l’idea di abolire il carcere, di liberare tutti i prigionieri, oggi sia assolutamente presente. Ma, ancora una volta, penso che ciò possa essere fatto solo quando il regime sionista sarà smantellato. Le logiche carcerarie persisterebbero certamente con la permanenza del regime coloniale di insediamento, dal momento che sono centrali per il suo funzionamento. L’abolizione del carcere nel contesto della Palestina richiede l’abolizione delle strutture e delle logiche del colonialismo d’insediamento nella loro interezza.
- Per una traduzione della lettera di Daqqa del 2005 dal titolo “Tempo parallelo”: https://thepublicsource.org/parallel-time-walid-daqqa ↩︎
- Per un confronto più ravvicinato con il lavoro di Walid Daqqa e un’ulteriore contestualizzazione del carcere in Palestina, cfr. Kaleem Hawa, “Like a Bag Trying to Empty: On the Palestinian prisoner and martyr Walid Daqqa,” Parapraxis, https://www.parapraxismagazine.com/articles/like-a-bag-trying-to-empty ↩︎
- Per una traduzione del testo di Daqqa “Consciousness Molded or the Re-identification of Torture”: https://drive.google.com/file/d/1_7nlNVOHo-MTYQ849MiKlA2TzSSWf-2X/view ↩︎
- Per un approfondimento sullo sfruttamento economico dei prigionieri palestinesi, cfr. Addameer, “The Economic Exploitation of Palestinian Political Prisoners,” 2016, https://www.addameer.org/sites/default/files/publications/final_report_red_2_0.pdf ↩︎
- https://euromedmonitor.org/en/article/6625/UAE:-Participation-of-Israeli-arms-companies-in-defence-exhibitions-is-clear-support-for-the-Israeli-killing-machine ↩︎
- https://www.cia.gov/readingroom/docs/CIA-RDP04T00990R000100390001-8.pdf ↩︎
- Per un recente intervento sul sistema carcerario americano e sul carcere come guerra, cfr. Orisanmi Burton in conversation with MAKC, ““Prisons are War”: The Long Attica Revolt and Abolition Internationalism,” The Funambulist, 20 February 2024, https://thefunambulist.net/magazine/prison-uprisings/prisons-are-war-the-long-attica-revolt-and-abolition-internationalism ↩︎
- Per un approfondimento su Abdul Qader Abu al-Fahem, cfr. https://www.palestine-studies.org/en/taxonomy/term/16143 ↩︎
- Da allora [al 5 maggio 2025, NdT] il numero è salito a 63. https://cda.gov.ps/index.php/en/51-slider-en/19659-58-palestinian-detainees-martyred-after-gaza-genocide-3 ↩︎
- https://www.middleeasteye.net/news/israel-palestine-israeli-prison-guards-suspected-abuse-death-palestinian-prisoner ↩︎
- Layan Kayed è stata rilasciata il 6 dicembre 2024. ↩︎
- Per una traduzione di Kayed, “Prison as Text”: https://charlesearl.blog/2024/06/23/layan-kayed-the-prison-as-a-text/ ↩︎
- Un secondo scambio di prigionieri ha avuto luogo nel gennaio 2025. ↩︎
- https://www.jadaliyya.com/Details/43977 ↩︎