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Liberazione Nazionale e Cultura

Amílcar Cabral

Che cos’è la “cultura” per un gruppo oppresso? È il prodotto meccanico del dominio o la chiave per la liberazione?

In questo discorso pronunciato nel 1970 per ricordare Eduardo Mondlane, leader del Fronte di Liberazione del Mozambico (FRELIMO) assassinato da agenti portoghesi il 3 febbraio 1969, Amílcar Cabral, leader del movimento di liberazione in Guinea-Bissau e Capo Verde, prova a rispondere, in maniera tutt’altro che scontata, a questa domanda cruciale.

Spesso, sottolinea Cabral, siamo schiacciati su due modi di intendere la cultura dei gruppi oppressi, entrambi sbagliati e “pericolosi”: l’esaltazione acritica o il rifiuto totale di tale cultura, letta come semplice prodotto di arretratezza o come effetto meccanico dell’assimilazione e della dominazione.

Se il secondo tratto, a meno di non essere completamente immersi nel più becero razzismo/suprematismo, appare più semplice da demistificare – esiste una indiscutibile vitalità e forza sovversiva nelle culture delle persone oppresse e, spesso, una certa dose di inassimilabilità – la prima prospettiva è più difficile da demistificare.

Siamo troppo spesso, ieri come oggi, portati a pensare che esista un valore intrinseco, una sorta di sacralità nella cultura dei gruppi oppressi, che va conservata, riprodotta ciecamente. Cabral, e prima di lui Fanon (si pensi alla sua celebre riflessione sul velo), ci mettono in guardia da questa forma apologetica e quasi essenzialista di “culto della cultura”.

In primo luogo, perché, per definizione la cultura non si conserva (non a caso sono proprio i colonizzatori a rendersi colpevoli di forme di musealizzazione dei tratti culturali), ma si trasforma. Altrimenti muore, altrimenti rischia di trasformarsi in una grottesca parodia.

In secondo luogo, perché, come qualsiasi prodotto storico/sociale, la cultura dei dominati non è esente da elementi regressivi (oltre che di quelli assorbiti attraverso la dominazione, Cabral parlerà anche dei “residui tribali/feudali” presenti nella cultura dei popoli colonizzati e, viceversa, del valore di alcuni tratti della cultura del dominatore che vanno recuperati e messi a frutto). Non possiamo dire che la cultura dei gruppi dominati prenda forma solo dalla dominazione, ma nemmeno che sia tutta buona, tutta produttiva in funzione di forme di liberazione e di resistenza.

La cultura è uno strumento, possiamo farne un buon uso o un cattivo uso, renderla una catena e un bavaglio oppure un grimaldello. Ed è complessa e multiforme al suo interno, contiene elementi reazionari e conservatori e elementi rivoluzionari e trasformativi: è necessario distinguere e separare gli uni dagli altri.

Questa distinzione è utile per analizzare i movimenti di liberazione di ieri, ma anche e soprattutto per comprendere quali sono, oggi, gli elementi culturali che ci consentono di rendere possibile e accelerare la fine del dominio e dello sfruttamento. Senza feticismi, senza ciechi innamoramenti. Soprattutto senza mai scindere le forme di dominazione/liberazione simboliche, che riguardano i discorsi e i simboli, da quelle materiali, che hanno a che fare con i processi di sfruttamento e di messa a valore della differenza.

Per Cabral “la lotta per la liberazione nazionale non era altro che l’espressione politica organizzata dalla cultura del popolo che sta intraprendendo la lotta (…) dovremmo valutare la nostra cultura in modo strumentale, in base a quanto ci aiuta a costruire ciò che stiamo cercando di costruire. Una cultura politica costruttiva si concentrerebbe più sui risultati che sul processo più sul perseguimento di obiettivi specifici e risultati definitivi che sull’evitare di essere complici dell’ingiustizia o sul promuovere principi puramente morali o estetici. (…) Dovremmo ricalibrare il nostro programma mettendo al centro l’obiettivo di ridistribuire il potere e le risorse sociali piuttosto che i piedistalli, la visibilità o le questioni simboliche” (Olúfẹ́mi O. Táíwò, La cattura delle élite, Alegre 2024, p. 128).

Amilcar Cabral è stato assassinato da agenti portoghesi, proprio come Eduardo Mondlane, il 20 gennaio 1973, tre anni dopo aver pronunciato questo discorso.

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Liberazione nazionale e cultura

Amílcar Cabral

Goebbels, la mente della propaganda nazista, una volta ha detto che quando sente parlare di cultura mette mano alla pistola. Questo dimostra che i nazisti – che erano e sono l’espressione più tragica dell’imperialismo e della sua sete di dominio – anche se erano tutti “degenerati” come Hitler, avevano una chiara idea del valore della cultura come elemento di resistenza alla dominazione straniera.

La storia ci insegna che, in determinate circostanze, è molto facile per lo straniero imporre il proprio dominio su un popolo. Ma ci insegna anche che, quali che siano gli aspetti materiali di questa dominazione, essa può essere mantenuta solo attraverso la repressione permanente e organizzata della vita culturale del popolo in questione.

La stabilità della dominazione straniera può essere assicurata definitivamente solo dalla liquidazione fisica di una parte significativa della popolazione dominata. Prendere le armi per dominare un popolo significa soprattutto prendere le armi per distruggere, o almeno per neutralizzare, per paralizzare, la sua vita culturale. Infatti, finché continua a esistere una parte del popolo che conserva la propria vita culturale, la dominazione straniera non può considerarsi stabile e al sicuro. In qualsiasi momento, a seconda dei fattori interni ed esterni che determinano l’evoluzione della società in questione, la resistenza culturale (che è indistruttibile) può assumere nuove forme (politiche, economiche, armate) per contestare pienamente la dominazione straniera.

L’ideale per una dominazione straniera, sia essa imperialista o meno, sarebbe poter scegliere di:

  • liquidare materialmente tutta la popolazione del Paese dominato, eliminando così ogni possibilità di resistenza culturale;
  • oppure riuscire a imporsi senza danneggiare la cultura del popolo dominato, cioè, armonizzare il dominio economico e politico di questo popolo con i suoi tratti culturali peculiari.

La prima opzione implica il genocidio della popolazione indigena e crea un vuoto che priva la dominazione straniera del suo contenuto e del suo oggetto: il popolo dominato stesso. La seconda ipotesi finora non si è mai verificata nella storia. Se guardiamo alle pur variegate esperienze umane possiamo affermare che non trova alcuna conferma: non è possibile armonizzare la sopraffazione economica e politica di un popolo, qualunque sia il suo grado di sviluppo sociale, con la conservazione dei suoi tratti culturali.

Per sfuggire a questa scelta – che può essere definita il dilemma della resistenza culturale – la dominazione coloniale imperialista ha cercato di formulare teorie che, in realtà, sono solo grossolane ri-formulazioni del razzismo e che, in pratica, si traducono in uno stato di assedio permanente delle popolazioni indigene sulla base di una dittatura (o di una democrazia) razzista.

È il caso, ad esempio, della cosiddetta teoria dell’assimilazione progressiva delle popolazioni native, che si rivela essere solo un tentativo più o meno violento di negare la cultura dei popoli. Il totale fallimento di questa “teoria”, messa in pratica da diverse potenze coloniali, tra cui il Portogallo, è la prova più evidente della sua inattuabilità, oltre che del suo carattere disumano. Essa ha raggiunto il grado massimo di assurdità proprio in Portogallo, quando Salazar ha affermato che l’Africa non esiste.

Questo è anche il caso della cosiddetta teoria dell’apartheid, creata, applicata e sviluppata sulla base del dominio economico e politico dei popoli dell’Africa meridionale da parte di una minoranza razzista, con tutti i vergognosi crimini contro l’umanità che essa ha comportato. La pratica dell’apartheid si concretizza nello sfruttamento senza limite della forza lavoro delle masse africane, incarcerate e represse nel più grande campo di concentramento che l’umanità abbia mai conosciuto.

Questi esempi concreti danno la misura della tragedia prodotta dalla dominazione imperialista straniera nel momento in cui si scontra con la realtà culturale dei popoli dominati. Inoltre, mostrano la forte relazione di dipendenza e reciprocità che c’è tra la dimensione culturale e quella economica (e politica) nelle dinamiche sociali. Infatti, la cultura è sempre, nella vita di una società (aperta o chiusa che sia), il risultato più o meno consapevole delle attività economiche e politiche di quella società, l’espressione più o meno dinamica dei tipi di rapporti che prevalgono in quella società, da un lato tra l’uomo (considerato individualmente e collettivamente) e la natura e, dall’altro, tra gli individui, i gruppi di individui, gli insiemi sociali o le classi.

Il valore della cultura come elemento di resistenza alla dominazione straniera risiede nel fatto che la cultura è la manifestazione più evidente sul piano ideologico o ideale della realtà fisica e storica della società dominata o da dominare. La cultura è contemporaneamente il frutto della storia di un popolo e un fattore determinante della storia, per l’influenza positiva o negativa che esercita sulla trasformazione delle relazioni tra l’uomo e il suo ambiente, tra gli uomini o i gruppi di uomini all’interno di una stessa società o tra società diverse. L’ignoranza di questo fatto può spiegare sia il fallimento di molti tentativi di dominazione straniera che il fallimento di alcuni movimenti di liberazione nazionale.

Esaminiamo la natura della liberazione nazionale. Considereremo questo fenomeno storico nel suo contesto contemporaneo, cioè la liberazione nazionale in opposizione alla dominazione imperialista. Quest’ultima, come sappiamo, si distingue sia nella forma che nel contenuto dai precedenti tipi di dominazione straniera (tribale, delle gerarchie militari, feudali e capitalistiche nell’era della libera concorrenza).

La caratteristica principale, comune a ogni tipo di dominazione imperialista, è la negazione del processo storico del popolo dominato attraverso l’usurpazione [e interruzione] violenta del libero dispiegamento del processo di sviluppo delle forze produttive. Ora, in ogni società, il livello di sviluppo delle forze produttive e il sistema di utilizzo sociale di queste forze (il sistema di proprietà) determinano il modo di produzione. A nostro avviso, il modo di produzione, le cui contraddizioni si manifestano con maggiore o minore intensità nella lotta di classe, è il fattore determinante della storia di qualsiasi gruppo umano, essendo il livello delle forze produttive il vero e permanente motore della storia.

Per ogni società, per ogni gruppo di persone, considerato come entità in evoluzione, il livello delle forze produttive indica lo stadio di sviluppo della società e di ogni suo componente in relazione alla natura, la sua capacità di agire o reagire consapevolmente in relazione alla natura. Indica e condiziona il tipo di rapporto tra l’uomo e il suo ambiente. Il modo di produzione, che rappresenta, in ogni fase della storia, il risultato dell’incessante ricerca di un equilibrio dinamico tra il livello delle forze produttive e il sistema di utilizzo sociale di queste forze, indica lo stadio di sviluppo di ogni società e di ogni sua componente in relazione a sé stessa e alla storia. Inoltre, indica e condiziona il tipo di relazioni materiali (espresse in modo oggettivo o soggettivo) che esistono tra i vari elementi o gruppi che costituiscono la società in questione. Relazioni e tipi di relazioni tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e il suo ambiente. Relazioni e tipi di relazioni tra componenti individuali o collettive di una società. Parlare di questi aspetti significa parlare di storia, ma anche di cultura.

A prescindere dalle caratteristiche ideologiche o ideali dell’espressione culturale, la cultura è un elemento essenziale della storia di un popolo. La cultura è il prodotto di questa storia proprio come il fiore è il prodotto di una pianta. Come la storia, o proprio perché è storia, la cultura ha come base materiale il livello delle forze produttive e il modo di produzione. La cultura affonda le sue radici nella realtà fisica del terreno in cui si sviluppa e riflette la natura organica della società, che può essere più o meno influenzata da fattori esterni. La storia ci permette di conoscere la natura e l’entità degli squilibri e dei conflitti (economici, politici e sociali) che caratterizzano l’evoluzione di una società; la cultura ci permette di conoscere le sintesi sempre in trasformazione che sono state sviluppate e stabilite dalla coscienza sociale per risolvere questi conflitti in ogni fase della sua evoluzione, nella ricerca della sopravvivenza e del progresso.

Proprio come accade con il fiore in una pianta, nella cultura risiede la capacità (o la responsabilità) di formare e fecondare il seme che assicurerà la continuità della storia, garantendo allo stesso tempo le prospettive di evoluzione e progresso della società in questione. Si capisce così perché la dominazione imperialista, negando lo sviluppo storico dei popoli dominati, nega necessariamente anche il loro sviluppo culturale. Si capisce così perché la dominazione imperialista, come tutte le altre dominazioni straniere, per garantire la propria stabilità, ha bisogno dell’oppressione culturale e tenta di liquidare direttamente o indirettamente gli elementi essenziali della cultura del popolo dominato.

Lo studio della storia delle lotte di liberazione nazionale mostra che generalmente queste lotte sono precedute da un aumento delle espressioni culturali, che si consolidano progressivamente tentando e riuscendo ad affermare le specificità culturali del popolo dominato, come mezzo per negare la cultura dell’oppressore. Qualunque siano le condizioni di assoggettamento di un popolo alla dominazione straniera, e qualunque sia l’influenza dei fattori economici, politici e sociali nel praticare questa dominazione, è generalmente all’interno della sfera della cultura che troviamo il germe dell’opposizione, che porta alla strutturazione e allo sviluppo del movimento di liberazione.

A nostro avviso, il fondamento della liberazione nazionale risiede nel diritto inalienabile di ogni popolo di avere la propria storia, a prescindere dalle formulazioni che possono essere adottate sul piano del diritto internazionale. L’obiettivo della liberazione nazionale è, quindi, rivendicare il diritto usurpato dalla dominazione imperialista, ossia la liberazione del processo di sviluppo delle forze produttive nazionali. Pertanto, la liberazione nazionale avviene quando, e solo quando, le forze produttive nazionali sono completamente libere da ogni tipo di dominazione straniera. La liberazione delle forze produttive e, di conseguenza, della capacità di determinare il modo di produzione più appropriato all’evoluzione del popolo liberato, apre necessariamente nuove prospettive per lo sviluppo culturale della società in questione, restituendole tutta la sua capacità di svilupparsi.

Un popolo che si libera dalla dominazione straniera sarà libero culturalmente solo se, senza complessi e senza sottovalutare l’importanza degli apporti positivi dell’oppressore e di altre culture, tornerà a percorrere i sentieri ascendenti della propria cultura, che si nutre della realtà viva del suo ambiente e che nega sia le influenze nocive sia qualsiasi tipo di assoggettamento alle culture straniere. Si può quindi affermare che, se la dominazione imperialista ha la necessità vitale di praticare l’oppressione culturale, la liberazione nazionale è necessariamente un atto di cultura.

Sulla base di quanto appena detto, possiamo considerare il movimento di liberazione nazionale come l’espressione politica organizzata della cultura dei popoli che intraprendono la lotta. Per questo motivo, chi guida il movimento deve avere un’idea chiara del valore della cultura nel quadro della lotta e deve avere una conoscenza approfondita della cultura del popolo, qualunque sia il suo livello di sviluppo economico.

Nel nostro tempo è comune affermare che tutti i popoli hanno una cultura. È passato il tempo in cui, nel tentativo di perpetuare il dominio dei popoli, la cultura veniva considerata un attributo di popoli o nazioni privilegiate e in cui, per ignoranza o per cattiveria, la cultura veniva confusa con la potenza tecnica, se non con il colore della pelle o la forma degli occhi. Il movimento di liberazione, in quanto rappresentante e difensore della cultura del popolo, deve essere consapevole del fatto che, a prescindere dalle condizioni materiali della società che rappresenta, ogni società è portatrice e creatrice di cultura. Il movimento di liberazione deve inoltre incarnare il carattere di massa, il carattere popolare della cultura, che non è e non potrà mai essere privilegio di uno o di alcuni settori della società.

Nell’analisi approfondita della struttura sociale che ogni movimento di liberazione dovrebbe essere in grado di fare in relazione agli imperativi della lotta, hanno un’importanza fondamentale le caratteristiche culturali di ciascun gruppo. Infatti, sebbene la cultura abbia un carattere di massa, non è uniforme, non è ugualmente sviluppata in tutti gli strati della società. L’atteggiamento di ogni gruppo sociale nei confronti della lotta di liberazione è dettato dai suoi interessi economici, ma è anche profondamente influenzato dalla sua cultura. Si può persino dire che queste differenze sul piano culturale spiegano le differenze di comportamento nei confronti del movimento di liberazione da parte di individui che appartengono allo stesso gruppo socio-economico. È a questo punto che la cultura raggiunge il suo pieno significato per ogni individuo: la comprensione e l’integrazione nel suo ambiente, l’identificazione con i problemi fondamentali e le aspirazioni della società, l’accettazione della possibilità di cambiamento nella direzione del progresso.

Nelle condizioni specifiche del nostro Paese – e, si può dire, dell’Africa intera – la distribuzione orizzontale e verticale dei livelli di cultura è piuttosto complessa. Infatti, dai villaggi alle città, da un gruppo etnico all’altro, da una fascia d’età all’altra, dal contadino all’operaio o all’intellettuale indigeno più o meno assimilato e, come abbiamo detto, anche da individuo a individuo all’interno dello stesso gruppo sociale, il livello quantitativo e qualitativo della cultura varia in modo significativo. È di primaria importanza che il movimento di liberazione tenga conto di questi elementi.

Nelle società a struttura sociale orizzontale, come quella Balanta [gruppo etnico presente in Guinea-Bissau, Guinea, Senegal, Capo Verde e Gambia], ad esempio, i livelli culturali e la loro distribuzione sono più o meno uniformi, essendo le variazioni legate unicamente alle caratteristiche degli individui o delle generazioni. D’altro canto, nelle società a struttura verticale, come i Fula [etnia dell’Africa occidentale e centrale, conosciuta anche come Fulani, Peul, o Pulaar], vi sono importanti differenze tra i settori più alti e più bassi della piramide sociale. Queste differenze nella struttura sociale illustrano ancora una volta la stretta relazione tra cultura ed economia e spiegano anche le differenze nel comportamento generale o specifico di questi due gruppi etnici in relazione al movimento di liberazione.

È vero che la complessità dei gruppi sociali ed etnici aumenta lo sforzo di determinare il ruolo della cultura nel movimento di liberazione. Ma è fondamentale non perdere di vista l’importanza decisiva del carattere di classe della cultura nello sviluppo della lotta di liberazione, anche quando la struttura di classe è o sembra essere in una fase embrionale di sviluppo.

L’esperienza della dominazione coloniale dimostra che, nel tentativo di perpetuare lo sfruttamento, il colonizzatore non solo crea un sistema per reprimere la vita culturale del popolo colonizzato, ma produce e alimenta anche l’alienazione culturale di una parte della popolazione, sia attraverso la cosiddetta assimilazione degli indigeni, sia creando un divario sociale tra le élite indigene e le masse popolari. Il risultato di questo processo di divisione o di approfondimento delle divisioni nella società consiste nel fatto che una parte considerevole della popolazione, in particolare la “piccola borghesia” urbana o contadina, assimila la mentalità del colonizzatore, si considera culturalmente superiore alla propria gente e ne ignora o guarda dall’alto in basso i suoi valori culturali. Questa situazione, caratteristica della maggior parte degli intellettuali colonizzati, si consolida con l’aumento dei privilegi sociali del gruppo assimilato o alienato, con implicazioni dirette sul comportamento degli individui di questo gruppo nei confronti del movimento di liberazione. Un lavoro sul modo di pensare – e sugli schemi mentali – è quindi indispensabile per una vera integrazione delle persone nel movimento di liberazione. Questa trasformazione – nel nostro caso l’africanizzazione – può avvenire prima della lotta, ma si completa solo nel corso della lotta, attraverso il contatto quotidiano con le masse popolari nella comunione di sacrificio richiesta dalla lotta.

Tuttavia, dobbiamo tenere conto del fatto che, di fronte alla prospettiva dell’indipendenza politica, l’ambizione e l’opportunismo di cui soffre in genere il movimento di liberazione possono avvicinare alla lotta individui in cui questa trasformazione non è avvenuta. Questi ultimi, in base al loro livello di scolarizzazione, alle loro conoscenze scientifiche o tecniche, pur senza perdere nessuno dei loro pregiudizi di classe, possono raggiungere le posizioni più alte nel movimento di liberazione. Bisogna dunque vigilare sia sul piano culturale che su quello politico. Infatti, nel movimento di liberazione come altrove, non è detto che sia tutto oro quello che luccica: i leader politici – anche i più noti – possono essere persone culturalmente alienate.

Ma l’impostazione culturale legata alla classe sociale è ancora più percepibile nel comportamento dei gruppi privilegiati nelle aree rurali, soprattutto nel caso di gruppi etnici con una struttura sociale verticale dove l’assimilazione o le influenze che portano all’alienazione culturale sono quasi o del tutto inesistenti. È il caso, ad esempio, della classe dirigente Fula. Sotto la dominazione coloniale, l’autorità politica di questa classe (capi tradizionali, famiglie nobili, leader religiosi) è puramente nominale, e le masse popolari sanno che la vera autorità è quella degli amministratori coloniali, che agiscono di conseguenza. Tuttavia, la classe dirigente conserva essenzialmente la sua autorità culturale di base sulle masse e questo ha implicazioni politiche molto importanti.

Riconoscendo questa realtà, il colonizzatore che reprime o inibisce attività culturali significative da parte delle masse alla base della piramide sociale, rafforza e protegge il prestigio e l’influenza culturale della classe dirigente al vertice. Il colonizzatore insedia capi che lo sostengono e che sono in qualche modo accettati dalle masse; concede a questi capi privilegi materiali, come l’istruzione per i figli maggiori, addirittura insedia dei capi dove prima non ce n’erano, stringe relazioni cordiali con i capi religiosi, costruisce moschee, organizza viaggi alla Mecca, ecc. E, soprattutto, attraverso gli organi repressivi dell’amministrazione coloniale, garantisce privilegi economici e sociali alla classe dirigente nei suoi rapporti con le masse. Tutto ciò non impedisce che, tra queste classi dirigenti, vi siano individui o gruppi di individui che si uniscono al movimento di liberazione, anche se meno frequentemente che nel caso della “piccola borghesia” assimilata. Diversi leader tradizionali e religiosi si uniscono alla lotta all’inizio o durante il suo sviluppo, dando un contributo entusiasta alla causa della liberazione. Ma anche in questo caso la vigilanza è indispensabile: conservando intimamente i pregiudizi culturali della loro classe, gli individui di questa categoria vedono generalmente nel movimento di liberazione l’unico mezzo valido, strumentalizzando i sacrifici delle masse, per eliminare l’oppressione coloniale della propria classe e ristabilire in questo modo il loro completo dominio politico e culturale sul popolo.

Nel quadro generale della lotta alla dominazione coloniale imperialista e nella situazione concreta a cui ci riferiamo, tra gli alleati più fedeli dell’oppressore si trovano alcuni alti funzionari e intellettuali delle professioni liberali, persone assimilate e anche un numero significativo di rappresentanti della classe dirigente delle aree rurali. Questo fatto ci dà una misura dell’influenza (positiva o negativa) della cultura e dei pregiudizi culturali nella scelta politica quando ci si confronta con il movimento di liberazione. Illustra anche i limiti di questa influenza e la prevalenza del fattore classe nel comportamento dei diversi gruppi sociali. L’alto funzionario o l’intellettuale assimilato, caratterizzato da una totale alienazione culturale, si identifica per scelta politica con il leader tradizionale o religioso che non ha subito significative influenze culturali straniere. Queste due categorie di persone, infatti, pongono al di sopra di ogni principio o richiesta di natura culturale – e contro le aspirazioni del popolo – i propri privilegi economici e sociali, i propri interessi di classe. È una verità che il movimento di liberazione non può permettersi di ignorare senza rischiare di tradire gli obiettivi economici, politici, sociali e culturali della lotta.

Senza minimizzare il contributo positivo che le classi privilegiate possono apportare alla lotta, il movimento di liberazione deve, sul piano culturale come su quello politico, basare la propria azione sulla cultura popolare, qualunque sia la complessità della stratificazione culturale del Paese. La lotta culturale contro la dominazione coloniale – la prima fase del movimento di liberazione – può essere pianificata efficacemente solo sulla base della cultura delle masse lavoratrici rurali e urbane, compresa la “piccola borghesia” nazionalista (rivoluzionaria) che è stata ri-africanizzata o che è pronta alla riconversione culturale. Qualunque sia la complessità di questo panorama culturale di base, il movimento di liberazione deve essere in grado di distinguere al suo interno l’essenziale dal secondario, il positivo dal negativo, il progressivo dal reazionario, per caratterizzare la linea maestra che definisce progressivamente una cultura nazionale.

Affinché la cultura possa svolgere il ruolo importante che le compete nel quadro del movimento di liberazione, il movimento deve essere in grado di preservare i valori culturali positivi di ogni gruppo sociale ben definito, di ogni categoria, e di realizzare la confluenza di questi valori al servizio della lotta, conferendole una nuova dimensione: la dimensione nazionale. Di fronte a questa necessità, la lotta di liberazione è soprattutto una lotta per la conservazione e la sopravvivenza dei valori culturali del popolo e per l’armonizzazione e lo sviluppo di questi valori in un quadro nazionale.

L’unità politica e morale del movimento di liberazione e del popolo che esso rappresenta e dirige implica il raggiungimento dell’unità culturale dei gruppi sociali che sono di importanza fondamentale per la lotta di liberazione. Questa unità si ottiene, da un lato, con l’identificazione totale con il territorio e con i problemi e le aspirazioni fondamentali del popolo; dall’altro, con la progressiva identificazione culturale dei vari gruppi sociali che partecipano alla lotta. Man mano che procede, la lotta di liberazione deve armonizzare interessi diversi, risolvere contraddizioni e definire obiettivi comuni nella ricerca della libertà e del progresso. La presa a cuore dei suoi obiettivi da parte di ampi strati della popolazione, che si riflette nella loro determinazione di fronte alle difficoltà e ai sacrifici, è una grande vittoria politica e morale. È anche una conquista culturale di importanza decisiva per il successivo sviluppo e successo del movimento di liberazione.

Quanto più grandi sono le differenze tra la cultura del popolo dominato e quella dell’oppressore, tanto più possibile diventa questa vittoria. La storia dimostra che è molto meno difficile dominare e continuare a dominare un popolo la cui cultura è simile o analoga a quella del conquistatore. Si potrebbe sostenere che il fallimento di Napoleone, a prescindere dalle motivazioni economiche e politiche delle sue guerre di conquista, sia derivato dall’ignoranza di questo principio o dall’incapacità di limitare la sua ambizione al dominio di popoli la cui cultura fosse più o meno simile a quella francese. La stessa cosa si potrebbe dire di altri imperi antichi, moderni o contemporanei.

Uno degli errori più gravi, se non il più grave, commesso dalle potenze coloniali in Africa, è stato quello di ignorare o sottovalutare la forza culturale dei popoli africani. Questo atteggiamento è particolarmente evidente nel caso della dominazione coloniale portoghese, che non si è accontentata di negare in modo assoluto l’esistenza dei valori culturali dell’africano e il suo posto in società, ma si è ostinata a proibirgli ogni tipo di attività politica. Il popolo portoghese, che non ha nemmeno goduto delle ricchezze sottratte ai popoli africani dal colonialismo portoghese, ma la cui maggioranza ha assimilato la mentalità imperiale delle classi dirigenti del Paese, sta pagando oggi molto caro, in tre guerre coloniali, l’errore di aver sottovalutato la nostra realtà culturale.

La resistenza politica e armata dei popoli delle colonie portoghesi, come di altri Paesi o regioni dell’Africa, è stata schiacciata dalla superiorità tecnica del conquistatore imperialista, con la complicità o il tradimento di alcuni settori delle classi dirigenti indigene. Quelle élite che erano fedeli alla storia e alla cultura del popolo furono distrutte. Intere popolazioni furono massacrate. Il regno coloniale fu instaurato con tutti i crimini e lo sfruttamento che lo caratterizzano. Ma la resistenza culturale del popolo africano non fu distrutta. Repressa, perseguitata, tradita da alcuni gruppi sociali che erano in combutta con i colonialisti, la cultura africana è sopravvissuta a tutte le tempeste, rifugiandosi nei villaggi, nelle foreste e nello spirito delle generazioni vittime del colonialismo. Come il seme che attende a lungo le condizioni favorevoli alla germinazione per assicurare la sopravvivenza della specie e il suo sviluppo, la cultura dei popoli africani rifiorisce oggi, in tutto il continente, nelle lotte di liberazione nazionale. Qualunque siano le forme di queste lotte, i loro successi o fallimenti e la durata del loro sviluppo, esse segnano l’inizio di una nuova era nella storia del continente e sono sia nella forma che nel contenuto l’elemento culturale più importante nella vita dei popoli africani. La lotta per la libertà dei popoli africani è al tempo stesso il frutto e la prova del vigore culturale, che apre nuove prospettive per lo sviluppo della cultura al servizio del progresso.

È passato il tempo in cui era necessario cercare argomenti per dimostrare la maturità culturale dei popoli africani. L’irrazionalità delle “teorie” razziste di un Gobineau o di un Lévy-Bruhl non interessa né convince più nessuno, se non i razzisti. Nonostante la dominazione coloniale (e forse anche a causa di essa), l’Africa ha saputo imporre il rispetto dei suoi valori culturali. Ha persino dimostrato di essere uno dei continenti più ricchi di valori culturali. Da Cartagine o Giza allo Zimbabwe, da Meroe a Benin e Ife, dal Sahara o Timbuctu a Kilwa, attraverso l’immensità e la diversità delle condizioni naturali del continente, la cultura dei popoli africani è una realtà innegabile: nelle opere d’arte come nelle tradizioni orali e scritte, nelle concezioni cosmologiche come nella musica e nella danza, nelle religioni e nelle credenze come nel dinamico equilibrio delle strutture economiche, politiche e sociali create dall’uomo africano.

Il valore universale della cultura africana è ormai un fatto incontestabile; tuttavia, non bisogna dimenticare che l’uomo africano, le cui mani, come disse il poeta, “posero le pietre delle fondamenta del mondo”, ha sviluppato la sua cultura in condizioni spesso, se non costantemente, avverse: dai deserti alle foreste equatoriali, dalle paludi costiere alle rive di grandi fiumi soggetti a frequenti inondazioni, nonostante ogni sorta di difficoltà, comprese le pestilenze che hanno distrutto piante, animali e uomini. In accordo con Basil Davidson e altri ricercatori di storia e cultura africana, possiamo dire che le conquiste del genio africano in campo economico, politico, sociale e culturale, nonostante il carattere inospitale dell’ambiente, sono epiche, paragonabili ai maggiori esempi storici della grandezza dell’uomo.

Naturalmente, questa realtà costituisce un motivo di orgoglio e uno stimolo per chi lotta per la liberazione e il progresso dei popoli africani. Ma è importante non perdere di vista il fatto che nessuna cultura è un insieme perfetto e finito. La cultura, come la storia, è un fenomeno in espansione e in divenire. Ancora più importante è tenere conto del fatto che la caratteristica fondamentale di una cultura è il carattere fortemente interdipendente e reciproco dei suoi legami con la realtà sociale ed economica dell’ambiente, con il livello delle forze produttive e il modo di produzione della società che l’ha creata.

La cultura, frutto della storia, riflette in ogni momento la realtà materiale e spirituale della società, dell’uomo-individuo e dell’uomo-essere sociale, alle prese con i conflitti che lo contrappongono alla natura e alle esigenze della vita comune. Da ciò si evince che ogni cultura è composta da elementi essenziali e secondari, da punti di forza e di debolezza, da virtù e mancanze, da aspetti positivi e negativi, da fattori di progresso e da fattori di stagnazione o regressione. Anche da questo si evince che la cultura – la creazione della società e la sintesi degli equilibri e delle soluzioni che la società stessa genera per risolvere i conflitti che caratterizzano ogni fase della sua storia – è una realtà sociale, indipendente dalla volontà degli uomini, dal colore della loro pelle o dalla forma dei loro occhi.

Un’analisi approfondita della realtà culturale non permette di affermare che esistano culture continentali o razziali. Questo perché, come per la storia, lo sviluppo della cultura procede in modo diseguale, sia a livello di continente, che di “razza” o di società. Le coordinate della cultura, come quelle di qualsiasi fenomeno che si trasforma e sviluppa, variano nello spazio e nel tempo, siano esse materiali (fisiche) o umane (biologiche). Il fatto di riconoscere l’esistenza di caratteristiche comuni e particolari nelle culture dei popoli africani, indipendentemente dal colore della loro pelle, non implica necessariamente l’esistenza di una cultura unica e omogenea nel continente. Così come da un punto di vista economico e politico possiamo riconoscere l’esistenza di diverse Afriche, allo stesso modo esistono molte culture africane.

Senza dubbio la sottovalutazione dei valori culturali dei popoli africani, basata su sentimenti razzisti e sulla volontà di perpetuare lo sfruttamento straniero, ha fatto molto male all’Africa. Ma di fronte alla necessità vitale di progresso, gli atteggiamenti o comportamenti che elencheremo qui di seguito non saranno meno dannosi per l’Africa: complimenti indiscriminati; esaltazione sistematica delle virtù senza condannare i difetti; accettazione cieca dei valori della cultura, senza considerare quali elementi attualmente o potenzialmente regressivi essa contenga; la confusione tra ciò che è espressione di una realtà storica oggettiva e materiale e ciò che appare come una creazione della mente o il prodotto di un temperamento particolare; l’assurdo collegamento di creazioni artistiche, buone o meno buone, con presunte caratteristiche razziali; e, infine, l’esaltazione non scientifica o a-scientifica del fenomeno culturale.

L’importante è quindi non perdere tempo in discussioni più o meno oziose sulle caratteristiche specifiche o meno dei valori culturali africani, ma piuttosto guardare a questi valori come a una conquista di un piccolo pezzo di umanità per un patrimonio comune, raggiunta in una o più fasi della sua evoluzione. L’importante è procedere all’analisi critica delle culture africane in relazione al movimento di liberazione e alle esigenze di progresso che si presentano in questa nuova fase della storia africana. È importante essere consapevoli del valore delle culture africane nel quadro della civiltà universale, ma confrontare questo valore con quello di altre culture, non per decretarne la superiorità o l’inferiorità, ma per determinare, nel quadro generale della lotta per il progresso, quale contributo ha dato e può dare la cultura africana e quali sono i contributi che può o deve ricevere da altre parti.

Il movimento di liberazione deve, come abbiamo detto, basare la sua azione su una conoscenza approfondita della cultura del popolo e deve essere in grado di apprezzare il valore reale degli elementi di questa cultura, così come i diversi livelli che essa raggiunge in ogni gruppo sociale. Il movimento deve anche essere in grado di discernere nell’intero insieme dei valori culturali del popolo l’essenziale e il secondario, il positivo e il negativo, il progressivo e il reazionario, i punti di forza e le debolezze.

Tutto ciò è necessario in funzione delle esigenze della lotta e per poter concentrare l’azione su ciò che è essenziale senza dimenticare ciò che è secondario, per favorire lo sviluppo degli elementi positivi e progressivi e per combattere con flessibilità ma con rigore gli elementi negativi e reazionari; infine, per utilizzare efficacemente i punti forti ed eliminare le debolezze o trasformarle in punti di forza.

Quanto più ci si rende conto che l’obiettivo principale del movimento di liberazione va oltre il raggiungimento dell’indipendenza politica, fino al livello superiore della completa liberazione delle forze produttive e della costruzione del progresso economico, sociale e culturale del popolo, tanto più è evidente la necessità di intraprendere un’analisi selettiva dei valori della cultura nel quadro della lotta di liberazione. Ora, i valori negativi della cultura sono generalmente un ostacolo allo sviluppo della lotta e alla costruzione di questo progresso. La necessità di tale analisi dei valori culturali diventa più acuta quando, per affrontare la violenza coloniale, il movimento di liberazione deve mobilitare e organizzare il popolo, sotto la direzione di un’organizzazione politica forte e disciplinata, per ricorrere alla violenza nella causa della libertà – la lotta armata per la liberazione nazionale.

In questa prospettiva, il movimento di liberazione deve essere in grado, al di là dell’analisi di cui sopra, di realizzare gradualmente ma inesorabilmente, con lo sviluppo della sua azione politica, la confluenza dei livelli di cultura dei diversi gruppi sociali disponibili alla lotta. Il movimento deve essere in grado di trasformarli nella forza culturale nazionale che sostiene e condiziona lo sviluppo della lotta armata. Va notato che l’analisi della realtà culturale dà già una misura dei punti di forza e di debolezza del popolo di fronte alle esigenze della lotta, e rappresenta quindi un prezioso contributo alla strategia e alla tattica da seguire, sul piano politico come su quello militare. Ma solo durante la lotta, avviata a partire da una necessaria unità politico/morale, la complessità dei problemi culturali può emergere in tutte le sue dimensioni. Ciò richiede spesso successivi adattamenti della strategia e della tattica alle realtà che solo la lotta è in grado di rivelare. L’esperienza della lotta dimostra quanto sia utopico e assurdo pensare di applicare meccanicamente e senza considerare la realtà locale (e soprattutto la realtà culturale) i piani d’azione sviluppati da altri popoli durante le loro lotte di liberazione e di applicare le soluzioni che essi hanno trovato ai problemi con cui si sono confrontati o si confrontano.

Si può dire che all’inizio della lotta, qualunque sia stato il grado di preparazione raggiunto, sia la leadership del movimento di liberazione che le masse militanti e popolari non hanno una chiara consapevolezza della forte influenza dei valori culturali nello sviluppo della lotta, delle possibilità che la cultura crea, dei limiti che impone, e soprattutto di come e quanto la cultura sia per il popolo una fonte inesauribile di coraggio, di sostegno materiale e morale, di energia fisica e mentale che permette di accettare sacrifici, persino di compiere “miracoli”. Ma allo stesso tempo, per certi aspetti, la cultura è una fonte di ostacoli e di difficoltà, di concezioni errate della realtà, di deviazioni nell’adempimento del dovere e di limitazioni al ritmo e all’efficienza di una lotta che si confronta con le esigenze politiche, tecniche e scientifiche di una guerra.

La lotta armata di liberazione che nasce in risposta all’oppressore colonialista si rivela uno strumento faticoso ma efficace per sviluppare il livello culturale sia degli strati dirigenti del movimento di liberazione sia dei vari gruppi sociali che partecipano alla lotta.

I leader del movimento di liberazione, provenienti in genere dalla “piccola borghesia” (intellettuali, impiegati) o dalle classi lavoratrici urbane (operai, autisti, lavoratori salariati in genere), dovendo convivere giorno per giorno con i vari gruppi contadini nel cuore dei territori rurali, imparano a conoscere meglio il popolo. Scoprono in profondità la ricchezza dei loro valori culturali (filosofici, politici, artistici, sociali e morali), acquisiscono una più chiara comprensione delle realtà economiche del Paese, dei problemi, delle sofferenze e delle speranze delle masse popolari. I leader si rendono conto, non senza un certo stupore, della ricchezza di spirito, della capacità di discussione ben argomentata e di esposizione chiara delle idee, della facilità di comprensione e di assimilazione dei concetti da parte di gruppi di popolazione che ieri erano dimenticati, se non disprezzati, e che erano considerati incompetenti dal colonizzatore e persino da alcuni colonizzati appartenenti alle aree urbane. I leader arricchiscono così la loro cultura, si sviluppano personalmente e si liberano dai complessi, rafforzando la loro capacità di contribuire al movimento al servizio del popolo.

D’altro canto, le masse lavoratrici e, in particolare, i contadini, che di solito sono analfabeti e non si sono mai spinti oltre i confini del loro villaggio o della loro regione, a contatto con altri gruppi perdono i complessi che li limitavano nelle relazioni con altri insiemi etnici e sociali. Si rendono conto del loro ruolo cruciale nella lotta; rompono i legami con il contesto ristretto del villaggio per integrarsi progressivamente nel Paese e nel mondo; acquisiscono un’infinità di nuove conoscenze, utili per la loro attività immediata e futura nel quadro della lotta; e rafforzano la loro consapevolezza politica assimilando i principi della rivoluzione nazionale e sociale postulati dalla lotta. In questo modo diventano più capaci di svolgere il ruolo decisivo di forza principale del movimento di liberazione.

Come sappiamo, la lotta di liberazione armata richiede la mobilitazione e l’organizzazione di una maggioranza significativa della popolazione, l’unità politica e morale delle varie classi sociali, l’uso efficiente di armi moderne e di altri mezzi bellici, la progressiva liquidazione dei residui della mentalità tribale e il rifiuto delle regole e dei tabù sociali e religiosi che inibiscono lo sviluppo della lotta (gerontocrazia, nepotismo, discriminazione delle donne, riti e pratiche incompatibili con il carattere razionale e nazionale della lotta, ecc.) La lotta comporta molte profonde modifiche nella vita delle popolazioni. La lotta di liberazione armata implica, quindi, una vera e propria marcia forzata sulla strada del progresso culturale.

Consideriamo queste caratteristiche insite nella lotta di liberazione armata: la pratica della democrazia, della critica e dell’autocritica, la crescente responsabilizzazione delle popolazioni nella direzione della propria vita, l’alfabetizzazione, la creazione di scuole e servizi sanitari, la formazione di quadri provenienti da ambienti contadini e operai e molte altre conquiste. Se consideriamo queste caratteristiche, vediamo che la lotta di liberazione armata non è solo un prodotto della cultura, ma anche un fattore determinante della cultura. Questa è senza dubbio per il popolo la prima ricompensa per gli sforzi e i sacrifici che la guerra richiede. In questa prospettiva è opportuno che il movimento di liberazione definisca chiaramente gli obiettivi della resistenza culturale come parte integrante e determinante della lotta.

Da quanto appena detto, si può concludere che nel quadro della conquista dell’indipendenza nazionale e nella prospettiva dello sviluppo del progresso economico e sociale del popolo questi obiettivi devono essere almeno i seguenti: sviluppo di una cultura popolare e di tutti i valori culturali indigeni positivi; sviluppo di una cultura nazionale basata sulla storia e sulle conquiste della lotta stessa; promozione costante della coscienza politica e morale del popolo (di tutti i gruppi sociali che lo compongono), del patriottismo, dello spirito di sacrificio e della devozione alla causa dell’indipendenza, della giustizia e del progresso; sviluppo di una cultura tecnica, tecnologica e scientifica, commisurata alle esigenze del progresso; sviluppo sulla base di un’assimilazione critica delle conquiste dell’uomo nei settori dell’arte, della scienza, della letteratura, ecc., di una cultura universale per la perfetta integrazione nel mondo contemporaneo, nelle prospettive della sua evoluzione; promozione costante e generalizzata dei sentimenti di umanesimo, di solidarietà, di rispetto e di dedizione disinteressata agli esseri umani.

Il raggiungimento di questi obiettivi è possibile, perché la lotta armata di liberazione, nelle condizioni concrete di vita dei popoli africani, di fronte alla sfida imperialista, è un modo per far germogliare la storia, la principale espressione della nostra cultura e della nostra africanità. Nel momento della vittoria, deve tradursi in un significativo balzo in avanti della cultura dei popoli che si stanno liberando.

Se ciò non accadrà, gli sforzi e i sacrifici sopportati durante la lotta saranno stati fatti invano. La lotta non avrà raggiunto i suoi obiettivi e il popolo avrà perso un’opportunità di progresso nel quadro generale della storia.

Osservazioni conclusive

Signore e signori, celebrando con questa cerimonia la memoria del dottor Eduardo Mondlane, rendiamo omaggio al politico, al combattente per la libertà e, soprattutto, a un uomo di cultura. Cultura acquisita non solo nel corso della sua vita personale e nelle aule dell’università, ma cultura acquisita soprattutto in mezzo al suo popolo, nel corso della lotta per la liberazione del suo popolo.

Si può dire che Eduardo Mondlane è stato barbaramente assassinato perché ha saputo identificarsi con la cultura del suo popolo, con le sue aspirazioni più profonde, nonostante tutti i tentativi o le tentazioni di alienare la sua personalità africana e mozambicana. Si è forgiato in una nuova cultura, nella lotta di liberazione, è caduto come combattente. È ovviamente facile accusare i colonialisti portoghesi e gli agenti dell’imperialismo, loro alleati, dell’abominevole crimine commesso contro la persona di Eduardo Mondlane, contro il popolo del Mozambico e contro l’Africa. Sono stati loro ad assassinarlo in modo vile. Tuttavia, tutti gli uomini di cultura, tutti coloro che lottano per la libertà, tutti gli spiriti che ardono per la pace e il progresso – tutti i nemici del colonialismo e del razzismo – devono avere il coraggio di assumersi la propria parte di responsabilità per questa tragica morte. Infatti, se il colonialismo portoghese e gli agenti imperialisti possono ancora uccidere impunemente un uomo come il dottor Eduardo Mondlane, è perché c’è qualcosa di marcio nel cuore dell’umanità: la dominazione imperialista. È perché gli uomini di buona volontà, difensori della cultura dei popoli, non hanno ancora compiuto il loro dovere su questo pianeta.

Secondo noi, questa è la misura delle responsabilità di coloro che ci ascoltano in questo tempio della cultura riguardo al movimento di liberazione dei popoli oppressi.

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