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Sul decreto sicurezza: repressione vs autodifesa

Anna Capretta

Nei prossimi giorni il Parlamento si appresta a convertire in legge il decreto sicurezza a firma del governo Meloni, che per accelerare questa conversione ha posto il voto di fiducia. L’iter parlamentare di questo atto normativo non è stato lineare: inizialmente, l’atto era stato presentato come disegno di legge – il cosiddetto ddl 1660 – con la firma dei ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto (rispettivamente ministri dell’interno, della giustizia e della difesa). Dopo l’approvazione alla Camera nel settembre 2024, il passaggio del testo al Senato si è rivelato piuttosto accidentato: di fronte alle pressioni provenienti sia dalle contestazioni di piazza, che ne chiedevano il ritiro, che dalle istituzioni stesse – con il Presidente Mattarella che aveva espresso dei dubbi in merito alla costituzionalità di alcuni articoli, la maggioranza di governo si è spaccata. Per risolvere l’impasse tra le forze di governo, con Fratelli d’Italia che sembrava aprire alla possibilità di modificare alcune parti del testo mentre Lega e Forza Italia su questo apparivano intransigenti, la soluzione è stata quella di abbandonare lo strumento del disegno di legge per passare a quello della decretazione d’urgenza. Con delle lievi modifiche a 6 dei 38 articoli, quelli che apparivano più a rischio di incostituzionalità, nella sostanza l’impianto generale dell’atto normativo è rimasto lo stesso. Scavalcando nei fatti la discussione parlamentare, il governo ha approvato il decreto legge n. 48 del 11 aprile 2025. Il titolo di questo decreto merita di essere richiamato: Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario. Si tratta di un titolo da cui emergono in modo chiaro due elementi distintivi di questo atto normativo. Da un lato, la grande varietà di temi disciplinati, che vengono fatti tutti rientrare nella categoria di “sicurezza”. Dall’altro, l’impiego di uno strumento dotato di un carattere di “urgenza”.

Quale sicurezza?

Negli ultimi anni, quasi ogni governo – tanto di destra quanto di centrosinistra – ha fatto il suo pacchetto sicurezza utilizzando lo strumento della decretazione di urgenza: si pensi al decreto Minniti (2017, governo Gentiloni), al decreto Salvini (2018, governo Conte I) e al decreto Salvini bis (2019). Il governo Meloni aveva già iniziato a emettere delle misure in materia di sicurezza, prima con il cosiddetto decreto anti-rave (2022) e poi con il ddl ecovandali (2024). Di fronte a questa continua produzione di politiche di sicurezza, che hanno un taglio sempre più punitivo, viene da chiedersi: possiamo parlare di situazioni di urgenza? C’è davvero una “emergenza sicurezza” in Italia? Guardando ai dati la risposta sembra essere negativa: in Italia come nel resto dell’Occidente i dati sulla criminalità sono in calo da decenni. A questo si aggiunga il fatto che il livello del conflitto sociale e politico è andato diminuendo, attestandosi a livelli più bassi rispetto alla fine del secolo scorso. Eppure, la percezione di insicurezza della popolazione continua ad aumentare.

Viene quindi da porsi una seconda domanda: di che tipo di (in)sicurezza stiamo parlando? Detta in altre parole, sicurezza per chi e rispetto a cosa?

Il concetto di sicurezza è cambiato profondamente seguendo le grandi trasformazioni della società che sono andate affermandosi a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, legate soprattutto alla trasformazione del capitale e alla sua declinazione neoliberale. Fino agli anni Ottanta parlare di sicurezza voleva dire parlare di sicurezza sociale: si trattava di una sicurezza che voleva essere per tutte e tutti, garantita in primo luogo dalla spesa sociale sostenuta in primis dallo Stato. A partire dagli anni Ottanta, questa dimensione viene sempre meno: la sicurezza viene a legarsi alla tutela dell’ordine pubblico, una svolta che viene definitivamente sancita dal decreto Minniti. Questa nuova nozione di sicurezza1 interessa solo alcune parti della società, quelle che hanno il potere di definire cosa si intende per ordine pubblico e soprattutto cosa può essere considerato una minaccia a tale ordine – minaccia che solitamente viene ricondotta agli ambiti dell’immigrazione, della marginalità sociale e, soprattutto a partire dai decreti Salvini, del dissenso politico. Di conseguenza, cambiano anche gli strumenti impiegati per tutelare questo tipo di sicurezza: non più politiche sociali ma il diritto (non solo penale ma anche amministrativo), le forze dell’ordine e vari dispositivi di controllo e sorveglianza. Questa svolta securitaria viene descritta in modo molto chiaro dalla direttiva emessa nel dicembre 2024 dal ministro dell’interno Piantedosi relativa all’istituzione delle “zone rosse”. Il testo di questa direttiva appare particolarmente utile per avere un’idea della concezione di politiche di sicurezza che è andata affermandosi: la direttiva ne individua le finalità in “deterrenza”, “prevenzione” e “repressione”. Il cambio di paradigma è sostanziale: dalla sicurezza sociale al controllo e la repressione.

Parlare di come sono cambiate le politiche di sicurezza in Italia negli ultimi anni permette di comprendere che il decreto sicurezza ora convertito in legge non nasce dal nulla: si tratta di un atto normativo che accelera la svolta punitiva evidente almeno dal 2017, una svolta di cui sono responsabili forze politiche tanto di destra quanto di centrosinistra. Ciò che caratterizza questo decreto sono da un lato un uso estensivo del diritto penale, con l’individuazione di nuovi reati e di nuove circostanze aggravanti, che in molti casi comportano aumenti di pena e l’imposizione di sanzioni di natura pecuniaria; dall’altro l’aumento di tutele e strumenti a disposizione per gli agenti di pubblica sicurezza, a partire dalle forze dell’ordine e le forze armate.

Breve analisi del testo del decreto sicurezza

Poste queste premesse, cosa comporta nei fatti questo decreto? Come è stato detto in precedenza, si tratta di un atto normativo che tocca molti temi diversi, dal terrorismo alla criminalità organizzata passando per l’usura e la cannabis (non più) legale. In questa sede ci si limiterà ad analizzarne alcuni aspetti che ci appaiono centrali per riflettere attorno al nuovo paradigma della sicurezza: criminalizzazione del dissenso politico e dell’immigrazione, carcere e tutela delle forze dell’ordine.

Dissenso politico

In merito al dissenso politico, si osserva un attacco diretto contro specifiche forme di lotta e di esercizio del conflitto politico. L’art. 10 istituisce il nuovo reato di occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui, con una pena di reclusione aumentata fino a 7 anni che va a colpire anche chi “si intromette o collabora con l’occupazione”. Un altro reato viene introdotto dall’art. 14, relativo al blocco stradale. Per questo reato viene prevista un’aggravante nel caso in cui il fatto venga commesso da più di 3 persone. Nuove aggravanti si trovano anche nell’art. 24 che riguarda i reati di deturpamento e imbrattamento, che verranno puniti più severamente in caso di recidiva e se a venire colpiti sono “beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche”. Aumento di pena anche per il reato di danneggiamento in occasione di manifestazioni, di cui si occupa l’art. 12. Leggere le disposizioni relative a queste fattispecie di reato e le relative pene fa venire alla mente specifiche lotte portate avanti da realtà e movimenti politici attivi in tutto il Paese, spesso già colpiti dalla repressione: le occupazioni legate alle lotte per la casa, i blocchi stradali dei sindacati di base e dei movimenti ecologisti, spesso responsabili anche di imbrattamenti, le azioni di sanzionamento e sabotaggio che vengono intraprese durante manifestazioni di vario tipo. Se ancora si avessero dei dubbi sull’intenzione del governo di attaccare specifici terreni di lotta, si veda l’art. 19 relativo ai reati di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, per cui sono aumentate le pene e introdotte nuove aggravanti: in particolare, viene prevista un’aggravante nei casi in cui la presunta violenza o minaccia venga “commessa al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici”. Il riferimento diretto alle infrastrutture strategiche si lega a processi di criminalizzazione già in atto ai danni dei movimenti contro le grandi opere: il movimento No Tav (in Valsusa ma anche a Vicenza), il movimento No Ponte e il movimento No Tap per nominarne alcuni.

Ancora in merito al dissenso, questo decreto si spinge oltre l’afflittività del diritto penale, che comunque deve essere fatta rientrare in un sistema di garanzie in capo all’autorità giudiziaria, e si affida a quello amministrativo per punire con logiche di polizia chi ancora non abbia subito una condanna passata in giudicato. Il riferimento qui è all’art. 13, che prevede un’estensione del cosiddetto daspo urbano – corrispondente al divieto di accesso, istituito dal decreto Minniti e poi inasprito da Salvini: il daspo urbano potrà ora essere emesso anche “nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti” per reati contro la persona e il patrimonio in alcune aree specifiche della città. Questa misura, ancora prima di diventare legge, era stata integrata nella direttiva di Piantedosi sulle zone rosse.

Carcere

Passando al tema del carcere, dal testo del decreto emerge una grande contraddizione: se da un lato gli ultimi articoli abbozzano delle misure volte a migliorare l’accesso all’attività lavorativa per le persone detenute, molto più numerosi sono gli articoli che prevedono pene che, se comminate, attraverso la reclusione andranno ad aumentare in modo significativo il sovraffollamento già drammatico delle carceri italiane. Di fronte a condizioni di vita sempre più disumane per le persone detenute, il governo prova a togliere loro il diritto di protesta trasformandolo in un nuovo reato: infatti, l’art. 26 introduce il reato di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, punito con “la reclusione da due a otto anni”. Si vuole quindi punire chi si rivolta in carcere con più carcere, e questo carcere deve essere un carcere duro: l’art. 34 include il nuovo reato di rivolta tra i reati ostativi, ossia quei reati che impediscono alla persona condannata di accedere a determinati benefici penitenziari, come la sospensione della pena, la libertà condizionale o la semilibertà.

Immigrazione

Di reato di rivolta si parla anche nell’art. 27, che si riferisce alle strutture di trattenimento per migranti come i CPR, teatro di una violenta repressione contro chi prova a ribellarsi a condizioni di vita e di trattamento assolutamente disumane e al limite della legalità. Questa non è l’unica misura che va a colpire le persone migranti: l’art. 29 estende alcuni reati legati al salvataggio in mare. Significativo è anche l’art. 9, che riguarda le persone con background migratorio nella misura in cui estende da 3 a 10 anni a partire dal momento in cui una sentenza di condanna passata in giudicato il termine entro cui poter revocare la cittadinanza italiana a chi la abbia doppia e abbia subito una condanna per delitti gravi.

Tutele per gli agenti di pubblica sicurezza

Se da un lato si assiste alla criminalizzazione di una serie di categorie sociali – categorie non certo casuali ma oggetto di politiche di diffusione di panico morale, dall’altro si osserva un aumento delle tutele per gli agenti di pubblica sicurezza. Si tratta di tutele che nella maggior parte dei casi si traducono anche in termini economici, prevedendo lo stanziamento di diversi milioni di euro. Milioni che verranno presi da fondi inizialmente destinati ad altro dal momento che il decreto si chiude con una clausola di invarianza finanziaria (art. 38). Inserendosi in un contesto di militarizzazione della nostra società, che vede una sua chiara espressione nel programma di riarmo presentato di recente dalla Commissione europea, questo decreto va nella direzione di investire sempre più soldi pubblici nei settori della sicurezza e della difesa, mentre quelli per la spesa sociale vengono progressivamente tagliati.

L’art. 17 prevede uno stanziamento di 5,8 milioni di euro per il 2025, da aumentare a 7,8 negli anni successivi, per l’assunzione di personale di polizia locale. Stando all’art. 21, sempre la polizia riceverà in dotazione nuove videocamere, incluse le bodycam, a fronte di una spesa di circa 24 milioni di euro nei prossimi tre anni. Circa 1 milione di euro all’anno verrà speso anche per offrire una tutela legale a personale di polizia e delle forze armate che sia indagato per fatti commessi in servizio (artt. 22 e 23). Per ogni fase del procedimento, l’agente indagato può chiedere fino a 10mila euro. Si decide quindi di sostenere economicamente attraverso lo stanziamento di fondi pubblici degli agenti che potrebbero essere stati accusati di abusi di potere e violenze – accuse che spesso vengono archiviate – invece che tutelare i cittadini e le cittadine che abbiano subito un danno da parte di pubblici ufficiali che hanno abusato del proprio potere. A questo si aggiunga il fatto che il decreto aumenta in modo significativo gli importi che deve versare chi, colpito o colpita dalla repressione del dissenso, subisca una condanna per determinati tipi di reato: per il danneggiamento in occasione di manifestazioni è prevista una “multa fino a 15.000 euro” mentre sono 12mila quelli che potrebbero trovarsi a dover versare le persone condannate con recidiva per deturpamento o imbrattamento.

Tornando all’esame delle tutele e degli strumenti messi a disposizione degli agenti di pubblica sicurezza, significativi anche l’art. 28, che li autorizza a portare armi senza licenza quando non sono in servizio, e l’art. 31 relativo al potenziamento dell’attività di informazione per la sicurezza. La sua formulazione originaria, contenuta nel ddl 1660, aveva scatenato delle polemiche accese in merito all’introduzione dell’obbligatorietà della collaborazione tra servizi di informazione per la sicurezza e pubbliche amministrazioni in materia di terrorismo. Nel testo del decreto, questa collaborazione è diventata non più obbligatoria ma facoltativa e deve rispettare la normativa sulla riservatezza dei dati.

Che effetti può avere il decreto sicurezza? Dimensioni ideologiche e materiali dei processi di repressione e criminalizzazione

Questa breve analisi di alcuni articoli del testo permette di concentrarsi su quali possono essere gli effetti di un decreto simile. Dietro ai processi di repressione e criminalizzazione sopra delineati vi è una dimensione demagogica e propagandistica, volta a consolidare il consenso elettorale delle forze politiche al governo attorno a una crescente insicurezza percepita – elemento comune a tutti i recenti pacchetti sicurezza, tanto quelli promossi dalla destra quanto quelli promossi dal centrosinistra. L’effetto è quello di alimentare la paura e il panico morale attorno a specifiche “minacce” all’ordine sociale, promuovendo l’uso della punizione e della deterrenza come strumento di prevenzione e tutela di tale ordine. Di fronte a politiche di sicurezza di questo tipo, è importante non cadere nella trappola dell’allarmismo in cui ci vogliono far cadere. L’attacco punitivo sferrato dal decreto appena convertito in legge presenta dei caratteri indubbiamente gravi e problematici che segnano un precedente pericoloso e che devono essere riconosciuti ma non nasce dal nulla e non colpirà la nostra società in modo indiscriminato. La repressione è un progetto: segue delle logiche punitive e securitarie ben precise e sa dove e come colpire. Per questo è importante non farsi vincere dalla paura e continuare a scendere in piazza ed esprimere il proprio dissenso contro politiche simili, mantenendo un equilibrio tra valutazione dei rischi e rifiuto di un’attitudine alla paranoia.

Per fare questo può essere utile comprendere come operano i processi di repressione e criminalizzazione previsti da questo decreto. Con questo atto normativo, il governo Meloni punta a usare tutti gli strumenti a sua disposizione per ampliare il monopolio della forza pubblica. Se da un lato si assiste a un rafforzamento dell’operato degli agenti di pubblica sicurezza, forze di polizia e forze armate in primis, dall’altro si opera contro “minacce” attuali o potenziali all’ordine pubblico soprattutto attraverso il diritto penale, che può essere molto afflittivo e incidere direttamente sulle libertà personali. Questo uso del diritto penale si lega a due principali ordini di problemi. Innanzitutto, questa continua espansione del campo del penale ha come effetto collaterale un suo progressivo dissesto: di fronte a un totale accumulato negli ultimi decenni di circa 35mila fattispecie di reato, formulate spesso con termini vaghi e indeterminati, aumenta il peso che può avere l’arbitrarietà dell’autorità giudiziaria. Inoltre, in tempi recenti si assiste a un uso del diritto penale che viene inteso almeno da una parte della magistratura non più come strumento per accertare delle responsabilità ed eventualmente sanzionare chi sia stato trovato o trovata colpevole di aver commesso un reato ma come uno strumento tanto repressivo quanto preventivo volto alla tutela dell’ordine pubblico, avvicinandosi alle logiche di polizia che invece sono proprie del diritto amministrativo. Ne deriva un uso del diritto penale che da un lato colpisce lotte già in corso, spesso con fattispecie di reato formulate in termini ambigui che lasciano molto spazio alle interpretazioni della magistratura, e dall’altro si muove in modo preventivo per attaccare un conflitto politico e sociale che in questa fase storica è oggettivamente basso – anche se potrebbe alzarsi in un futuro non troppo lontano visto il malcontento che genereranno le politiche di austerity e i tagli alla spesa sociale decise per compensare l’indebitamento conseguente all’aumento della spesa per la sicurezza e la difesa.

In questo senso diventa necessario parlare di diritto penale senza limitarsi al piano ideologico, quello della paura e della deterrenza. Il diritto penale ha effetti concreti sulla vita delle persone imputate e/o condannate, effetti che passano per le forze dell’ordine, l’autorità giudiziaria, le misure cautelari, l’eventuale reclusione e/o sanzione pecuniaria. È quindi fondamentale prendere in considerazione anche gli effetti materiali di un uso estensivo del diritto penale e quindi del decreto sicurezza appena convertito in legge. La repressione del dissenso politico, che si traduce nella limitazione al diritto di riunione e di manifestazione del pensiero costituzionalmente garantiti, e la violazione dei diritti delle persone migranti e di chi sta in carcere contribuiscono a rafforzare la legittimità dell’uso della forza da parte del governo, che con questo atto normativo assegna letteralmente più denaro e più armi agli agenti di pubblica sicurezza.

Sul piano materiale questo comporta una riduzione degli spazi e delle forme possibili per esercitare l’autodifesa, un concetto elaborato nel contesto delle pratiche di lotta del black power negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta. Autodifesa2 significa tutelare e tutelarsi dall’oppressione esercitata da un sistema capitalista e razzista “con ogni mezzo necessario”, per riprendere le parole di Malcolm X. Per rispondere a forme di autodifesa, l’apparato statale usa la dimensione ideologica della repressione per togliere legittimità alla resistenza organizzata e collettiva praticata dal basso attraverso la costruzione di un “apparato difensivo”, come lo definisce Elsa Dorlin. In che modo funziona questo apparato? Attraverso la repressione e la criminalizzazione, “i gruppi sociali che sono definiti ‘a rischio’ vengono legati a un potere di azione esclusivamente negativo”3 e le forme di autodifesa vengono rappresentate come forme che esprimono una violenza ingiustificata, che viene astratta dal contesto di conflitto politico e sociale in cui si sviluppa e viene ricondotta all’ambito criminale. In questo modo, la violenza repressiva degli apparati statali appare come una risposta volta a difendere l’ordine sociale, una risposta che è sempre legittima. Appare quindi chiaro il legame tra dimensione ideologica e dimensione materiale della repressione: la prima pone le condizioni per la seconda, andando a delegittimare l’autodifesa e l’espressione di forme di dissenso e resistenza e giustificando la loro criminalizzazione, che viene poi finalizzata attraverso la violenza delle forze dell’ordine e l’afflittività del diritto penale – e, in alcuni casi, anche amministrativo.

Quindi torniamo a chiederci, sicurezza per chi e rispetto a cosa? Come afferma Luigi Ferrajoli4, si tratta di una sicurezza “che pretende l’impunità per i ricchi e i potenti e promuove la disumanità nei confronti dei poveri e degli emarginati, destinati a pene draconiane, carcere duro e lesioni della loro dignità di persone”. Questa disumanità rientra nei prodotti della dimensione ideologica della repressione, che si traduce in forme materiali di oppressione. Comprendere a fondo i processi che alimentano queste forme di oppressione può aiutarci a consolidare le nostre pratiche collettive di autodifesa. Di fronte all’attacco sferrato dal decreto sicurezza, invece di cedere alla paura e all’allarmismo è necessario organizzarsi.


  1. Cfr. Rossella Selmini, Dalla sicurezza urbana al controllo del dissenso politico. Una storia del diritto amministrativo punitivo, Carocci, Roma 2020. ↩︎
  2. Cfr. Robert F. Williams, Ne*ri con le pistole, Me-Ti, Napoli 2024 (vedi qui); Me-Ti, Il coltello dalla parte del manico. Quale legittima difesa?, pubblicato il 9 gennaio 2025 qui. ↩︎
  3. Elsa Dorlin, Self defence. A philosophy of violence, Verso Books, London 2022, p. xv. ↩︎
  4. Luigi Ferrajoli, Il nuovo pacchetto sicurezza e le aggressioni allo stato di diritto, in Antigone (a cura di), Pacchetto sicurezza. Il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana, p. 13. Vedi qui. ↩︎

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