La maggior parte delle teorie proposte per spiegare la stabilità e la crescita del capitalismo occidentale dopo la seconda guerra mondiale si basano sull’idea che, senza un fattore specifico di compensazione, il sistema precipiterebbe nella sovrapproduzione e nella disoccupazione. Alcuni hanno visto questo fattore nella pianificazione statale, altri nel rapido progresso tecnologico o ancora nell’espansione del commercio mondiale. Questo articolo condivide questa ipotesi di partenza. Ma se ne differenzia su un punto essenziale: individua il meccanismo che garantisce il circolo virtuoso di elevata occupazione, crescita e stabilità al di fuori di questo stesso circolo.
L’argomento secondo cui una minaccia permanente di sovrapproduzione (e non una minaccia di sovrapproduzione permanente) è inseparabile dal capitalismo si basa su tre proposizioni empiriche: in primo luogo, la forza competitiva di un singolo capitale è, in una certa misura, legata alle dimensioni e all’estensione delle sue operazioni; in secondo luogo, le relazioni tra i diversi capitali sono in gran parte di natura concorrenziale; in terzo luogo, le decisioni relative alle dimensioni e all’assegnazione dei capitali individuali sono prese in modo privato da individui o gruppi che rappresentano solo una piccola parte della società, la quale deve tuttavia convivere con le conseguenze di tali decisioni.
Senza le prime due condizioni, non esisterebbero vincoli che costringono ogni capitale a crescere il più rapidamente possibile attraverso l’“accumulazione” (cioè il risparmio e gli investimenti) e la “concentrazione” (fusioni e acquisizioni). Senza la terza, la crescita non supererebbe mai di molto la capacità di assorbimento della società.
Insieme, questi tre elementi costituiscono anche un meccanismo che consente di raggiungere e mantenere una certa stabilità: aumentano la capacità di assorbimento moderando al contempo il ritmo di espansione che questa dinamica potrebbe generare. Idealmente, questo meccanismo dovrebbe funzionare senza sconvolgere eccessivamente i rapporti tra i singoli capitali.
Un meccanismo di questo tipo si ritrova in un bilancio permanente per gli armamenti. Nella misura in cui il capitale è tassato per finanziare le spese militari, viene privato di risorse che avrebbero potuto essere investite altrimenti; nella misura in cui tali spese riguardano un prodotto finale che diventa rapidamente obsoleto, esse costituiscono un’aggiunta netta al mercato dei beni di consumo o “beni finali”. Uno dei risultati evidenti di questo tipo di spesa è la piena occupazione e uno degli effetti della piena occupazione è uno dei tassi di crescita più elevati mai registrati; pertanto, l’effetto moderatore di questa tassazione non è immediatamente percepibile. Ma non è per questo inesistente. Se il capitale potesse investire tutti i suoi profitti al lordo delle imposte, con l’intervento dello Stato per creare la domanda se necessario, i tassi di crescita sarebbero molto più elevati. Infine, nella misura in cui gli armamenti sono un “lusso” – nel senso che non servono né come mezzi di produzione né come mezzi di sussistenza nella fabbricazione di altri beni – la loro produzione non ha alcun effetto sui tassi di profitto globali, come verrà dimostrato di seguito.
L’aumento della spesa mondiale dovuta ai bilanci militari è sbalorditivo. Nel 1962, ben prima che la guerra del Vietnam facesse esplodere la spesa militare americana (e russa), uno studio delle Nazioni Unite concludeva che circa 120 miliardi di dollari (43.000 milioni di sterline) erano spesi ogni anno in spese militari. Ciò rappresentava tra l’8 e il 9% della produzione mondiale di beni e servizi e almeno i due terzi – se non addirittura l’equivalente – del reddito nazionale di tutti i paesi sottosviluppati. Tale importo era molto vicino al valore delle esportazioni mondiali annuali di tutte le merci. Ancora più impressionante è il confronto con gli investimenti: le spese militari rappresentavano circa la metà della formazione lorda di capitale a livello mondiale.1
La loro importanza variava notevolmente da un paese all’altro: l’85% della spesa totale era concentrata in sette paesi: Regno Unito, Canada, Cina, Germania occidentale, Francia, Russia e Stati Uniti.2 Nei paesi capitalisti occidentali, la spesa militare rappresentava, in proporzione al prodotto interno lordo, tra il 9,8% degli Stati Uniti (media 1957-1959) e il 2,8% della Danimarca (6,5% della Gran Bretagna). In proporzione alla formazione lorda di capitale fisso, esse variavano dal 60% circa negli Stati Uniti al 12% in Norvegia (42% nel Regno Unito).3 In nessuno di questi Paesi tali spese erano trascurabili, né come sbocco per il mercato, né – cosa ancora più importante – rispetto alle risorse destinate agli investimenti.
Alcune industrie dipendono fortemente dalla spesa militare. Negli Stati Uniti (nel 1958), più di nove decimi della domanda finale di aeromobili e della loro componentistica proveniva dallo Stato, la maggior parte per scopi militari; lo stesso valeva per quasi tre quinti della domanda di metalli non ferrosi, più della metà per i prodotti chimici e le apparecchiature elettroniche, più di un terzo per le apparecchiature di comunicazione e gli strumenti scientifici — e così via, in un elenco di diciotto grandi industrie in cui almeno un decimo della domanda finale proveniva dalle commesse pubbliche. In Francia (nel 1959), questa quota variava dal 72,4% per gli aerei e i pezzi di ricambio all’11% per le apparecchiature ottiche e fotografiche.4 Nel Regno Unito, un elenco simile includeva l’industria aeronautica, il cui il 70% della produzione (nel 1961) dipendeva dalle commesse pubbliche, l’elettronica industriale e le radiocomunicazioni (35% ciascuna), la costruzione navale (23%), nonché diversi altri settori.5
L’impatto della spesa militare sulla crescita e l’innovazione è altrettanto diretto. La piena occupazione favorisce l’innovazione tecnica e forti investimenti di capitali, che a loro volta stimolano la ricerca. In questo campo, la spesa militare ha un peso considerevole: rappresentava il 52% della spesa totale in ricerca e sviluppo (R&S) negli Stati Uniti (1962-63), il 39% nel Regno Unito (1961-62) e il 30% in Francia (1962) e il 15% in Germania (1964, stima parziale).6 Non meno di 300.000 scienziati qualificati lavoravano nella R&S per scopi militari e spaziali nell’area OCSE, principalmente in sei Paesi (quelli già citati, più il Canada e il Belgio).7 Nel Regno Unito, nel 1959 erano impiegati 10.000 scienziati, pari a un quinto del totale nazionale, assistiti da circa altri 30.000 ricercatori non qualificati.
La ricerca militare ha svolto un ruolo cruciale nello sviluppo di prodotti civili quali i sistemi di navigazione aerea, gli aerei da trasporto, i computer, i farmaci, le locomotive diesel (derivate dai motori dei sottomarini) o, ancora, il vetro temprato. La produzione in serie per scopi militari ha permesso di ridurre il costo di altri prodotti, come i pannelli solari o i rilevatori a infrarossi, rendendoli accessibili al mercato di massa. Inoltre, l’uso militare ha perfezionato numerose tecniche di uso generale, come le turbine a gas, la trasmissione idraulica o la saldatura a ultrasuoni. Come sottolinea il rapporto dell’OCSE sul governo e l’innovazione tecnica, ancora più importante è il fatto che:
“I risultati della ricerca militare e spaziale hanno avuto – e continueranno ad avere – un’influenza determinante sull’innovazione civile, stimolando il ritmo generale del progresso tecnologico. Ad esempio, i bisogni di queste ricerche, in particolare nel campo della guida e del controllo, hanno portato a progressi fondamentali e applicati in settori quali i semiconduttori, i microcircuiti, i micromoduli, la conversione di energia o la metallurgia fisica, tutti settori destinati ad avere un impatto sulla tecnologia civile. Inoltre, tecniche di pianificazione come la ricerca operativa, il metodo PERT (Program Evaluation and Review Technique), l’ingegneria dei sistemi o l’analisi del valore, sviluppate originariamente per soddisfare le esigenze militari e spaziali, facilitano ora l’identificazione rapida delle opportunità di innovazione. Infine, l’assoluta necessità di perfezione e affidabilità in questi settori ha permesso lo sviluppo di metodi di misurazione, collaudo e controllo che migliorano la qualità e l’affidabilità dei prodotti. Ciò vale in particolar modo per il campo dell’elettronica.”8
Per quanto riguarda gli armamenti e il commercio internazionale, il già citato studio delle Nazioni Unite stimava che, per gli anni 1958 e 1959, la domanda militare media annua dei paesi industrializzati rappresentasse una quota significativa della produzione mondiale di diverse materie prime.9
È difficile trarre conclusioni definitive sull’impatto della spesa militare sulle dimensioni delle imprese. Tuttavia, uno studio dell’EIU (Economist Intelligence Unit) relativo alla Gran Bretagna rivela che, tra le imprese intervistate, le diciotto più grandi (quelle con più di 10.000 dipendenti ciascuna) rappresentavano il 71% dei posti di lavoro complessivi e concentravano il 75,2% dei posti di lavoro alla produzione di armamenti.10 Negli Stati Uniti si osserva un fenomeno simile: la maggior parte dei contratti di difesa va a vantaggio delle grandi imprese. Nonostante gli sforzi ufficiali per distribuire i benefici, le prime cento imprese hanno ricevuto, in termini di valore, i due terzi di tutti i contratti per la difesa nella prima metà degli anni ’50; le prime dieci da sole ne hanno ottenuto un terzo.11
Ciò non sorprende: solo le grandi imprese dispongono delle risorse tecniche e tecnologiche necessarie per far fronte alla complessità e all’entità della produzione di armamenti. Una volta entrate nel “club” dei beneficiari, la loro crescita è praticamente garantita. I principali contratti per la difesa hanno cifre tanto colossali che, secondo le parole di un osservatore, “non era seriamente pensabile nemmeno rispettare la regola della gara d’appalto aperta per alcuni dei contratti pubblici più redditizi”.12
Nel 1963, un vice segretario alla Difesa degli Stati Uniti dichiarò davanti alla Commissione economica congiunta del Congresso che “creare una nuova fonte di produzione per il missile Polaris, ad esempio, richiederebbe fino a tre anni e un investimento di 100 milioni di dollari in impianti e attrezzature specializzate”.13 Sebbene le tecniche di controllo governativo per far fronte a questa dipendenza da fornitori unici siano state regolarmente rafforzate, i grandi contratti, remunerati sulla base dei costi reali in termini di materiali e tempo investiti, eliminano qualsiasi rischio di perdita… e quindi ogni ostacolo alla crescita. In alcuni casi, le garanzie sono così ampie e il monitoraggio così debole che gli stessi subappaltatori perdono il controllo. È stato il caso della Ferranti con il suo contratto per il missile Bloodhound, che l’ha costretta a restituire 4,5 milioni di sterline di profitti in eccesso su un contratto di 13 milioni nel 1964. Ma in generale il capitale rimane prudente e i rischi per la crescita sono meticolosamente neutralizzati.
Infine, le spese militari hanno svolto un ruolo cruciale nello sviluppo della pianificazione governativa e nel perfezionamento delle tecniche di pianificazione. Esistono prove ufficiali che indicano che la pianificazione negli Stati Uniti è stata una risposta diretta al vantaggio sovietico nel campo dei missili balistici. La stretta sorveglianza del settore industriale privato è ormai parte integrante di ogni grande contratto per la difesa. I moderni metodi di revisione e controllo derivano direttamente dalle esigenze militari. Lo stesso vale per uno strumento che è diventato sempre più essenziale nella maggior parte delle grandi operazioni di pianificazione: il computer. Nato durante la seconda guerra mondiale, è ancora utilizzato principalmente in campo militare, sia per risolvere problemi di progettazione, simulare “giochi di guerra” o gestire le scorte e la produzione. I grandi computer rimangono inoltre soggetti a restrizioni all’esportazione da parte degli Stati Uniti per motivi militari. Questi effetti diretti della spesa militare sono interconnessi e formano insieme un circolo vizioso che sembra perpetuarsi senza bisogno di stimoli esterni. Tuttavia, sebbene ciò sembri sufficientemente probante, non tutti i problemi sono risolti. È possibile che anche altri fattori contribuiscano a spiegare la stabilità economica. Qualsiasi economista accademico dovrebbe essere in grado di costruire un modello in cui il risparmio e gli investimenti si bilanciano perfettamente e la domanda si attesta esattamente al livello della piena occupazione. Le tecniche per raggiungere questo obiettivo non presentano alcuna difficoltà.
Non accademici, come John Strachey, hanno cercato, non senza difficoltà, di dimostrare in modo più pragmatico che “la spesa militare potrebbe essere sostituita da altre forme di spesa pubblica… [per finanziare] alloggi, strade, scuole, etc.”, o che il governo potrebbe ottenere un effetto simile riducendo le imposte sui redditi bassi.14 E non c’è, logicamente, alcun motivo per contraddirli. Ma la realtà capitalista è più resistente delle penne e della carta dei pianificatori. Da un lato, sono escluse spese produttive troppo elevate da parte dello Stato. Dal punto di vista di un singolo capitalista, questo tipo di spesa rappresenterebbe un’intrusione diretta nel suo proprio ambito da parte di un concorrente infinitamente più potente e dotato di risorse materiali molto superiori: una minaccia del genere deve essere combattuta senza riserve. Dal punto di vista del sistema nel suo complesso, ciò comporterebbe un rapido aumento del rapporto capitale/lavoro – ciò che Marx chiamava composizione organica del capitale – abbassando notevolmente il tasso medio di profitto, al punto che il minimo aumento dei salari reali potrebbe essere sufficiente a provocare fallimenti e recessione.
Solo l’ultimo punto merita una spiegazione più dettagliata. Marx ha dimostrato – per dirla in parole semplici – che, nel lungo periodo e nonostante numerosi meccanismi compensatori, l’aumento della composizione organica del capitale comporta una tendenza al ribasso del tasso di profitto in un’economia capitalista chiusa.15 Il ragionamento è semplice: poiché solo la parte non pagata del lavoro genera profitto e la parte dell’investimento destinata alla forza lavoro diminuisce costantemente, il rendimento complessivo del capitale è destinato a diminuire. Marx aveva subordinato questa “legge” a diversi fattori e aveva difficoltà a spiegare perché non si manifestasse in modo assoluto, ma come una tendenza al graduale declino. Egli la considerava tuttavia la tendenza dominante del capitalismo. La sua dimostrazione si basava su due ipotesi, entrambe realistiche: in primo luogo, che tutta la produzione rientra nel sistema sotto forma di input produttivi, attraverso il consumo dei lavoratori o dei capitalisti. Idealmente, non esistono fughe dal sistema né altri usi diversi da quelli che oggi chiamiamo investimento e consumo operaio. In secondo luogo, che in un sistema chiuso di questo tipo, questa distribuzione si evolve progressivamente a favore dell’investimento.
La prima ipotesi è cruciale. Se si ammette che una parte della produzione viene sottratta al ciclo produttivo – ad esempio sotto forma di spese non produttive – allora il rapporto tra capitale e lavoro diventa indeterminato, la seconda ipotesi crolla… e con essa la legge. Marx stesso aveva individuato alcune “fughe” dal ciclo produttivo, in particolare il consumo personale dei capitalisti (i “prodotti di lusso”) e la produzione di oro, ma aveva giustamente scelto di trascurarli nella sua analisi. Egli costruiva allora una teoria partendo da una base astratta, e questi elementi erano, all’epoca, relativamente marginali.
Teorici successivi, dediti a perfezionare il modello e scrivendo anche in un’epoca più prospera, hanno approfondito questo Dipartimento III non produttivo. Ladislaus Von Bortkiewicz (1868-1931) ha dimostrato, in un articolo pubblicato nel 190716, che la composizione organica del capitale nella produzione di beni di lusso (il consumo personale dei capitalisti) non ha alcun impatto sulla determinazione del tasso di profitto globale. Piero Sraffa (1898-1983), in quella che rimane ancora oggi17 la versione più raffinata di un sistema economico “classico”, ha generalizzato questa idea. Egli ha dimostrato che:
“I beni di lusso che non sono utilizzati né come mezzi di produzione né come beni di sussistenza nella fabbricazione di altri prodotti […] non partecipano alla determinazione del sistema. Il loro ruolo è puramente passivo. Se un’invenzione consentisse di dimezzare la quantità di mezzi di produzione necessari per la fabbricazione di un bene di lusso, il suo prezzo sarebbe dimezzato. Ma ciò non avrebbe alcun altro effetto: né i prezzi delle altre merci, né il tasso di profitto sarebbero modificati. Al contrario, un’invenzione che incidesse sulla produzione di un bene utilizzato come input modificherebbe l’insieme dei prezzi relativi e il tasso di profitto”.18
Sebbene Sraffa si astenga, come al solito, dal fornire esempi concreti, nessun caso illustra meglio la categoria di “bene di lusso” che quello delle armi. Esse non possono infatti servire alla produzione di nessun altro bene e nessun altro bene può reggere il confronto con ciò che rappresentano in termini di peso specifico e significato. Dal punto di vista del sistema – cioè in un’ottica strettamente teorica – la produzione di armamenti costituisce quindi il principale, e apparentemente duraturo, contrappeso alla tendenza al ribasso del tasso di profitto.
Ma questo è solo uno dei vincoli alla possibilità per lo Stato di utilizzare altri tipi di produzione – non militari – come leve di stabilizzazione economica. Questo vincolo è tanto meno convincente in quanto si basa esclusivamente su una costruzione teorica. Un altro limite, più concreto, è legato all’“effetto domino” proprio degli armamenti: quando un paese si impegna in questo settore, le altre grandi potenze sono costrette a seguire, innescando così una corsa agli armamenti su scala mondiale e ritrovandosi intrappolate nella spirale di questo meccanismo stabilizzatore.
Non c’è altra via d’uscita. Se l’assenza di pianificazione, la concorrenza o, per riprendere il termine di Marx, “l’anarchia della produzione” hanno potuto essere parzialmente attenuate all’interno degli Stati-nazione grazie all’intervento pubblico, che ha permesso di anticipare in una certa misura le decisioni spontanee dei capitali individuali attraverso scelte politiche globali, a livello internazionale questa anarchia persiste quasi totalmente. Con poche eccezioni – quelle delle piccole economie – non esiste alcuna autorità coercitiva al di là dello Stato-nazione. Il sistema mondiale funziona ancora secondo lo schema classico: un aggiustamento permanente tra capitali nazionali, senza un’istanza di coordinamento superiore. Ecco perché anche un blocco relativamente omogeneo come quello delle potenze capitaliste occidentali continua a regolare i propri scambi sulla base dell’oro, simbolo per eccellenza del misticismo capitalista che circonda i rapporti sociali [nel 1971, Nixon dichiara la fine della convertibilità del dollaro con l’oro mettendo termine agli accordi di Bretton-Woods. La risoluzione è nota come Nixon Shock. NdT]. Ed è anche il motivo per cui, in un insieme ancora più omogeneo come l’Europa orientale, il commercio bilaterale rimane la modalità dominante degli scambi. Il divario tra la realtà competitiva e l’illusione della cooperazione è enorme, anche all’interno di blocchi strettamente integrati, e diventa incommensurabile tra blocchi rivali.
In queste condizioni, qualsiasi Paese che decidesse di garantire la piena occupazione e la stabilità attraverso investimenti produttivi – o anche attraverso attività pubbliche sostitutive non produttive – si troverebbe inevitabilmente in una posizione di debolezza nella competizione mondiale. Un Paese del genere potrebbe certamente raggiungere la piena occupazione, ma in modo isolato; ciò comporterebbe però quasi inevitabilmente un certo livello di inflazione, rendendolo meno competitivo e, alla fine, spingendolo fuori dal mercato mondiale. Affinché questa situazione sia sostenibile, sarebbe necessario impedire alle altre economie di indebolirlo. In altre parole, la piena occupazione deve essere esportata — e cosa c’è di più incentivante, per spingere gli altri a “ricomprarla”, di una minaccia militare esterna?
Ciò non significa tuttavia che i bilanci militari siano stati consapevolmente concepiti con l’obiettivo di garantire un contesto internazionale favorevole alla stabilità. Si può ammettere che i governi abbiano spesso aumentato le spese per la difesa con riluttanza; che i principali aumenti non abbiano sempre coinciso con periodi di rallentamento economico; che, molto spesso, queste decisioni siano state percepite come vincolanti, imposte o semplicemente deplorevoli. Si può anche accettare che il passaggio iniziale a un’economia permanente degli armamenti sia stato il risultato di una serie di circostanze. Ma ciò non cambia il fondo del problema. L’essenziale è che l’esistenza stessa di apparati militari nazionali di dimensioni tanto grandi, indipendentemente dalla loro origine, al contempo aumenta le possibilità di stabilità economica e costringe gli altri Stati-nazione ad adottare una posizione simile senza che ciò venga esplicitamente diretto da parte di un’autorità superiore. Insieme, queste risposte formano un sistema i cui elementi sono allo stesso tempo interdipendenti e autonomi, legati tra loro da vincoli reciproci: in breve, un sistema capitalista nella sua forma classica.
Una volta radicata nella realtà, l’economia degli armamenti tende quasi inevitabilmente a diventare permanente. Ciò non solo perché un sistema di vincoli reciproci basato sulla minaccia militare si rivela particolarmente imperativo, ma anche perché diventa sempre più difficile distinguere tra concorrenza militare e concorrenza economica. Come si vede ora [1967], con gli Stati Uniti e la Russia impegnati a dotarsi di missili antibalistici dal costo spaventoso, la corsa agli armamenti potrebbe intensificarsi non per ragioni di reale efficacia militare, ma con l’obiettivo di aumentare i costi della preparazione militare del concorrente. Il responsabile della rubrica sulla difesa della rivista Times lo riassumeva così:
“Una tale decisione ha senso solo se entrambe le parti intendono impegnarsi in una guerra economica totale, convinte che i vantaggi fondamentali del proprio sistema economico finiranno per prevalere; entrambe convinte che il peso paralizzante di questo nuovo onere militare accelererà il crollo economico dell’altra.”19
Questa è la dinamica tra “nemici”. Ma tra “alleati”, la difesa comune può anche servire da paravento per interessi industriali particolari, specifici di ciascun paese. Un esempio eloquente: nell’ambito di un accordo biennale che scadeva il 30 giugno 1967, la Germania [Ovest] si era impegnata ad acquistare armi dagli Stati Uniti per un valore di 5,4 miliardi di marchi, a compensazione delle spese militari americane sul suo territorio. A dieci mesi dalla scadenza, restavano da ordinare 2,4 miliardi di marchi e “non sembra profilarsi all’orizzonte alcun nuovo ordine”. Come sottolinea The Economist, “l’obbligo per la Germania di acquistare così tanto materiale militare dagli Stati Uniti… costituisce un grave svantaggio per l’industria tedesca, in particolare per l’industria aeronautica”.20 Ciò danneggiava anche le ambizioni britanniche, che stavano faticosamente cercando di entrare nel mercato tedesco degli armamenti.
Non occorre aggiungere altro per constatare che gli armamenti sono diventati una componente permanente delle nostre economie. L’intensa concorrenza nelle esportazioni di armi – tra blocchi rivali come all’interno di ciascuno di essi – ne è una dimostrazione lampante. Gli Stati Uniti hanno un proprio rappresentante commerciale per la vendita di armi. In Gran Bretagna, il governo laburista è arrivato al punto di nominare sia un ministro per il disarmo che un direttore delle vendite di materiale di difesa, quest’ultimo rappresentante della Racal Electronics, un’azienda produttrice di armi in piena espansione. Egli ha il potere di aprire canali di esportazione privilegiati, di influenzare la progettazione delle attrezzature fin dalla loro fase di sviluppo21, di controllare i tempi di consegna, di avvalersi del servizio diplomatico, etc. Come ha dichiarato il ministro degli Affari esteri:
“Finché non otterremo un disarmo generale attraverso un accordo internazionale, è ragionevole che questo Paese benefici di una quota equa del mercato degli armamenti.”22
L’integrazione dell’industria degli armamenti nell’economia generale, come leva di competitività, produce effetti considerevoli. La funzione del bilancio militare come strumento di stabilizzazione all’interno di ciascuna economia nazionale è indebolita dal suo ruolo nella concorrenza tra economie. Un Paese può sviluppare il proprio arsenale per ragioni puramente interne, ma questa dinamica porta quasi inevitabilmente a una reazione dei suoi concorrenti, basata su giustificazioni di ordine internazionale altrettanto legittime. Tuttavia, nulla garantisce che questa spirale si interrompa al livello necessario per assicurare la stabilità. Anche se un Paese riuscisse, contro ogni aspettativa, a stabilizzare la propria spesa militare a un livello ottimale, ciò non significherebbe affatto che gli altri farebbero lo stesso, a causa delle loro differenze in termini di dimensioni, struttura economica, livello di sviluppo, alleanze o altre caratteristiche specifiche delle economie nazionali legate da una stessa base tecnologica militare. Alcuni Paesi cercheranno quindi di ridurre le proprie spese per preservare la propria competitività civile, altri proseguiranno sulla strada attuale, altri ancora intensificheranno il proprio impegno militare. Il disordine all’interno della NATO ne è un esempio eloquente: la Francia si ritira [dal comando militare dell’Alleanza, nel 1965], mentre gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania sono in disaccordo sul finanziamento comune e la condivisione delle responsabilità nucleari. Washington cerca di fare pressione per un aumento dei bilanci militari europei, di fronte a un’Europa riluttante. Il Patto di Varsavia non è da meno: la Romania riesce a “gaullizzare” Mosca [cioè ad adottare nei confronti di Mosca una posizione di indipendenza paragonabile a quella di De Gaulle nei confronti degli Stati Uniti. NdT].
L’esistenza di un tetto economico alla spesa militare è un elemento chiave dell’economia permanente degli armamenti. In un’economia di guerra, i limiti sono dettati dalle risorse fisiche disponibili e dalla capacità della popolazione di sopportare perdite umane e privazioni. In un’economia degli armamenti, si aggiunge un vincolo specifico: la necessità di rimanere competitivi a livello globale, sia sul piano militare che civile.
Questo paradosso porta a un indebolimento della funzione stessa della difesa. Allo stato attuale, essa è minata dalla logica suicida di gran parte dell’arsenale cosiddetto “difensivo”. D’altra parte, una preparazione militare limitata – caratteristica delle economie permanenti degli armamenti – non provoca automaticamente ostilità, il che rende la fissazione dei livelli di spesa un argomento di dibattito costante, in particolare per i membri più fragili della coalizione occidentale, spesso incapaci di seguire il ritmo imposto.
Il contesto è favorevole a una lenta erosione della spesa per gli armamenti nella periferia, compensata dalla sua crescente concentrazione al centro, ovvero negli Stati Uniti. I fatti parlano chiaro: né Cuba, né il Vietnam, né tantomeno le acute tensioni del periodo tra il 1961 e il 1963, segnato in particolare dalla costruzione del muro di Berlino e dalla crisi dei missili di Cuba, hanno invertito la tendenza al ribasso, in termini reali, della spesa militare britannica dall’inizio degli anni ‘50. Nonostante la forza militare di De Gaulle e il riarmo della Germania, la quota degli Stati Uniti nella spesa militare totale dei paesi della NATO ha continuato ad aumentare, anche prima dei significativi aumenti legati alla guerra del Vietnam. Questa situazione è tutt’altro che stabile.
L’esistenza di un tetto massimo di spesa è importante per un altro motivo. Esso costituisce un forte incentivo all’aumento della produttività (misurata in milioni di potenziali morti per ogni dollaro speso) e induce così le industrie degli armamenti a diventare sempre più specializzate abbandonando l’ingegneria generale. Come indicato in uno dei rapporti dell’OCSE già citati:
“il trasferimento diretto al settore civile di prodotti e tecnologie sviluppati per scopi militari e spaziali è molto limitato rispetto alla portata complessiva della ricerca e dello sviluppo militare e spaziale. Inoltre, i requisiti tecnologici della difesa e dello spazio divergono sempre più da quelli dell’industria civile, il che significa che le possibilità di trasferimento diretto tendono a diminuire.”23
Questa specializzazione va di pari passo – e deriva in parte – da una crescente intensità di capitale e tecnologia nelle industrie degli armamenti. Su entrambi i fronti, queste industrie diventano sempre meno in grado di sostenere la piena occupazione, a meno di superare i limiti ritenuti accettabili in un’economia basata sugli armamenti.
Il carattere insolubile che prende il fenomeno della disoccupazione in un’economia permanente degli armamenti è strettamente legata a questa dinamica. I rapidi cambiamenti tecnologici, non pianificati – e impossibili da pianificare – nelle industrie dell’armamento soggette a un livello massimo di spesa creano aree regionali e industriali di disoccupazione, che rimangono in gran parte insensibili alle misure fiscali e monetarie generali. Creano inoltre strati di manodopera non qualificata resa inoccupabile dalle tecnologie avanzate e in continua evoluzione, che vengono implementate. Ancora una volta, l’alto livello di crescita in Occidente maschera questo fenomeno, ma la situazione delle regioni cantieristiche qui [nel Regno Unito] e negli Stati Uniti, le difficoltà incontrate nelle zone di produzione aeronautica negli Stati Uniti, e persino i problemi che affliggono gli afroamericani, devono almeno in parte la loro intensità alle fluttuazioni della spesa militare e alla crescente complessità della produzione militare.
L’instabilità, di per sé, non condanna un sistema. Ma può contribuire a metterlo in discussione nel suo insieme e aprire così la strada a un’alternativa. Può anche consentire di articolare tra loro diverse forme di contestazione. In altre parole, l’instabilità può trasformare un diffuso senso di alienazione o di fallimento – che questa società continua ad alimentare – in coscienza di classe e in un progetto politico. Che questo processo avvenga o meno dipende dalla ricettività dei lavoratori alle idee di cambiamento radicale. Ed è proprio in questa maggiore ricettività che l’economia permanente degli armamenti trova i suoi veri limiti.
L’argomento è stato esposto altrove24 e qui richiede solo una breve sintesi. L’economia permanente degli armamenti tende a rendere la manodopera sempre più scarsa e le qualifiche costose per ogni singolo capitale, aumentando al contempo la dimensione media del capitale e concentrando il potere in pochi grandi complessi, prevalentemente industriali. Queste imprese sono costrette a tenere conto delle probabili riforme – cioè delle concessioni materiali ai lavoratori – molto prima di attuarle, nel momento stesso in cui formulano i loro piani a lungo termine. Allo stesso tempo, lo Stato è spinto a intervenire attivamente nella gestione dell’economia e a creare posti di lavoro produttivi su larga scala. La sua apparente neutralità politica si sta sgretolando, le sue politiche appaiono sempre più chiaramente come politiche capitalistiche, sia in qualità di datore di lavoro diretto, sia come componente – attraverso le imprese pubbliche – delle organizzazioni padronali, sia come gestore economico dell’intera economia. Il suo carattere unico come agente di riforma, nel senso sopra indicato, è sempre più compromesso dall’attività del settore privato in questo campo. Dopo tutto, i benefici sociali nell’industria (cioè le riforme private), che nel 1960 rappresentavano in media il 13-14% dei salari25, sono molto vantaggiosi rispetto alla “spesa sociale” pubblica (cioè le riforme pubbliche), che nello stesso anno rappresentava il 12,6% della spesa per consumi.26
La reazione dei lavoratori ne è stata profondamente trasformata. Il realismo impone che la lotta per le riforme sia condotta a livello locale, sul posto di lavoro, in modo diretto, piuttosto che a livello nazionale, sul terreno politico e attraverso rappresentanti parlamentari provenienti dalla classe media. È vero che questo realismo tende spesso a sostituire la solidarietà di classe con la solidarietà di gruppo, la coscienza di classe con la coscienza del posto di lavoro, un’etica imprenditoriale con i primi germi di un’etica socialista. È anche vero che un tale realismo rischia di demolire i livelli superiori – le organizzazioni di classe tradizionali – senza attendere che le fondamenta siano state ampliate e consolidate. Tuttavia, questo realismo sposta il baricentro dell’attività da “là” a “qui”, da “loro” a “noi”; erode le barriere artificiali tra la classe e i suoi organi, così come le lealtà spesso contraddittorie.
Il rivoluzionario potenziale di domani e il riformista attivo di oggi diventano sempre più indistinguibili, mentre le instabilità dell’economia permanente degli armamenti rendono la rivoluzione semplicemente una tappa nelle attività di tutti i riformisti sinceri.
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Pubblicato per la prima volta in «International Socialism» (prima serie), n. 28, primavera 1967, pp. 8-12, poi in forma di opuscolo dal SWP (GB).
- Nazioni Unite, Conséquences économiques et sociales du désarmement (New York 1962). ↩︎
- Ibid., p. 4. ↩︎
- Ibid., tabella 2-1, pp. 55-7. Nello studio dell’ONU, le cifre fornite per la Gran Bretagna sono generalmente inferiori a quelle del rapporto più dettagliato realizzato dall’Economist Intelligence Unit un anno dopo: The Economic Effect of Disarmament (Londra: EIU, 1963). Poiché tale divergenza non ha alcuna incidenza sull’argomentazione, non tenteremo di adeguare le cifre in questa sede. ↩︎
- OCSE, Les pouvoirs publics et l’innovation technique, p. 27. ↩︎
- EIU, pp. 49, 69, 82 e passim. ↩︎
- OCSE, tabella, p. 30. L’EIU fornisce una cifra del 49% per la Gran Bretagna nel 1958-59 (59,2% nel 1955-56, EIU, p. 27). ↩︎
- OCSE, p. 30. ↩︎
- Ibid., pp. 31-32. ↩︎
- Ovvero l’8,6% per il petrolio greggio; il 3% per la gomma; il 15,2% per il rame; il 10,3% per il nichel; il 9,6% per lo stagno; il 9,4% per il piombo e lo zinco; il 7,5% per il molibdeno; 6,8% per la bauxite; 5,1% per il minerale di ferro; 2,7% per il manganese e 2,3% per la cromite, ibid., tabella 3-3, p. 65. ↩︎
- EIU, pp. 22-3. ↩︎
- Citato da John-Kenneth Galbraith, The Modern Corporation, conferenze Reith della BBC, n. 2, The Listener, 24 novembre 1966, p. 756. ↩︎
- Andrew Shonfield, The Modern Capitalism: the Changing Balance of Public and Private Power, Oxford, Oxford University Press, 1966, p. 344. ↩︎
- Citato da Shonfield, ibid. ↩︎
- John Stratchey, Contemporary Capitalism, Londra, Gollancz, 1956, pp. 239-246. ↩︎
- Karl Marx, Il capitale, Libro III, vol. 1, Parigi, Editions sociales, 1974, cap. 13 e 14, pp. 225-253. [La composizione organica del capitale indica il rapporto tra il capitale costante (speso in mezzi di produzione: macchinari, edifici, materie prime…), il cui valore viene semplicemente trasferito e conservato nel prodotto finale, e il capitale variabile (speso in salari), che produce un valore superiore a quello necessario alla sua riproduzione, la cui parte non pagata corrisponde al plusvalore, che viene appropriato dal capitalista. L’ipotesi di Marx è che l’innovazione tecnica porta a una tendenziale diminuzione della quota destinata al capitale variabile, il che porta a una tendenziale diminuzione del tasso di profitto, ovvero del rapporto tra plusvalore e capitale totale investito (capitale costante + capitale variabile) NdT]. ↩︎
- Cfr. Ladislaus von Bortkiewicz, «On the Correction of Marx’s Fundamental Theoretical Construction in the Third Volume of Capital», Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik, luglio 1907; Rudolph Hilferding, Böhm-Bawerk’s Criticism of Marx, New York, Kelly, 1949, riassunto in Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, Londra, Dennis Dobson, 1949, pp. 115-125. ↩︎
- Piero Sraffa, The Production of Commodities by Means of Commodities, Cambridge, Cambridge University Press, 1960 [trad. francese: Production de marchandises par des marchandises, Parigi, Dunod, 1977]. ↩︎
- Ibid., pp. 7-8. ↩︎
- The Times, 10 maggio 1966. ↩︎
- The Economist, 21 maggio 1966, pp. 809-10. ↩︎
- The Times, 12 maggio 1966. ↩︎
- Rapporto della Camera dei Comuni, The Times, 24 maggio 1966. ↩︎
- OCSE, p. 31. ↩︎
- Tony Cliff, «The Economic Roots of Reformism», Socialist Review, luglio 1957, ripreso in Tony Cliff, Neither Washington Nor Moscow, Londra, Bookmarks, 1982; Michael Kidron, « Reform and Revolution», International Socialism, n. 7, 1961; Tony Cliff e Colin Barker, Incomes Policy, Legislation and Shop Stewards, Londra, 1966, cap. 7 e 9; Colin Barker, «The British Labour Movement», International Socialism, n. 28, 1967. ↩︎
- G. L. Reid e D. J. Robinson, «The Cost of Fringe Benefits in British Industry», in G. L. Reid e D. J. Robinson (dir.), Fringe Benefits, Labour Costs and Social Security, Londra, 1965. ↩︎
- BIT, Le coût de la sécurité sociale 1958-1960, Ginevra, 1964, parte 2, tabella 4, p. 249. ↩︎