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Comprendere l’economia permanente degli armamenti. Introduzione all’economia politica di Michael Kidron

Alex Callinicos

In questo articolo, scritto appositamente per Contretemps, Alex Callinicos mette in prospettiva la teorizzazione dell’economia permanente degli armamenti da parte dell’economista marxista Michael Kidron, di cui pubblichiamo anche l’articolo di riferimento sull’argomento, finora inedito in francese e italiano.

Callinicos, teorico marxista e figura di spicco della corrente – il Socialist Workers Party britannico – in cui Kidron ha militato a lungo, illustra il percorso complessivo dell’autore e torna sul dibattito che ha suscitato. Sottolinea l’originalità del suo approccio, la sua volontà di rompere con lo schematismo che ha a lungo caratterizzato gli approcci marxisti dominanti, pur evidenziandone alcune debolezze.

***

Il capitalismo e la guerra sono sempre stati profondamente legati. Max Weber ha sottolineato l’importante ruolo che il finanziamento delle guerre degli Stati europei ha svolto nello sviluppo del capitalismo moderno.1 Questo legame è forte ancora oggi. Mentre le illusioni della globalizzazione neoliberista si sono dissipate, ci troviamo in una nuova era di concorrenza inter-imperialista. La guerra per procura condotta dalla NATO contro la Russia in Ucraina è solo il primo round di un conflitto che si sta sviluppando tra la potenza egemone in declino, gli Stati Uniti, e il suo più serio competitor, la Cina.2 Le denunce, da parte di Donald Trump, delle “guerre eterne”, condotte dai suoi predecessori, non hanno impedito alle commissioni del Congresso statunitense di elaborare proposte per un bilancio della difesa pari a un trilione di dollari per l’anno fiscale 2026.3

Il marxismo e l’economia di guerra

Il primo periodo delle guerre inter-imperialiste, tra il 1914 e il 1945, ha visto marxisti del calibro di Rosa Luxemburg, Nikolai Bukharin e Henryk Grossman tentare di decifrare il rapporto tra militarismo e accumulazione di capitale. Tuttavia, è stato lo sviluppo di elevate spese militari in tempo di pace, durante la guerra fredda, che ha dato vita alle esplorazioni teoriche più serie su questo tema. Il termine “tempo di pace” indica in questo caso l’assenza di guerre generalizzate tra le grandi potenze durante la guerra fredda4, il che rendeva questo periodo molto diverso da quello delle guerre mondiali del 1914-1945. Naturalmente ci sono state guerre importanti nel Sud globale, che è diventato rapidamente il teatro in cui la guerra fredda è divampata, in particolare in Corea, Indocina, Medio Oriente e Afghanistan.5

In un recente importante studio sul keynesismo militare americano durante la guerra fredda, Tim Barker sottolinea la specificità del “capitalismo della guerra fredda”, in particolare durante il periodo di intenso keynesismo militare degli anni ’50-’70, quando la quota della spesa destinata alla difesa non è mai scesa al di sotto del 9%. Si trattava di “un’economia qualitativamente più militarizzata” rispetto a quella degli Stati Uniti nel XXI secolo, un periodo in cui la spesa per la difesa non ha generalmente superato il 5% del reddito nazionale.6

L’emergere di questa economia permanente degli armamenti (EPA) ha coinciso con i “i gloriosi trent’anni”, il lungo periodo di espansione del capitalismo occidentale dopo la guerra (in realtà durato poco meno di 30 anni, dal 1948 al 1973). Come ha sottolineato Michael Kidron, il più importante teorico marxista dell’EPA, alla fine di questo periodo “l’elevata disoccupazione, la rapida crescita economica e la stabilità sono ormai considerate normali nel capitalismo occidentale”.7

Questo risultato ha inizialmente sorpreso. Come dimostra Tim Barker, commentatori di vari orientamenti politici avevano avvertito che la fine della seconda guerra mondiale avrebbe portato al tipo di crisi economiche che avevano seguito la prima, minacciando di sostituire il capitalismo con il socialismo. L’enorme aumento delle spese militari richiesto dalla strategia della guerra fredda dell’amministrazione Truman nel famoso memorandum NSC-68 dell’aprile 1950, redatto da Paul Nitze e attuato in risposta allo scoppio di una guerra calda in Corea tre mesi dopo, garantì che non ci sarebbe stato un ritorno agli anni ’30.8

Ma come concettualizzare il rapporto tra accumulazione di capitale e spesa militare? È deplorevole che, nonostante un’analisi sofisticata e illuminante dei mutevoli e talvolta contraddittori interessi delle diverse frazioni del capitale americano nell’EPA, Tim Barker non vada mai oltre una spiegazione post-keynesiana convenzionale degli effetti macroeconomici degli elevati bilanci della difesa sulla stimolazione della domanda effettiva e, di conseguenza, sull’occupazione, gli investimenti e i consumi.9

Persino Tony Cliff, il marxista palestinese che era il più stretto collaboratore politico di Kidron quando questi sviluppò la sua teoria dell’EPA, rimase in un quadro intellettuale sostanzialmente simile nel suo saggio pionieristico del 1957, “Perspectives for the Permanent War Economy”, dove utilizza il concetto keynesiano di moltiplicatore per spiegare l’impatto della spesa militare sull’aumento del reddito nazionale.10

Per quanto valide, queste analisi non riescono a collocare l’EPA nella teoria marxista dell’accumulazione del capitale e delle crisi. Il contributo teorico più importante di Cliff, la sua analisi dell’Unione Sovietica come né socialista né “Stato operaio degenerato” (come sosteneva Trotsky), ma come capitalismo di Stato burocratico, attribuisce comunque un ruolo importante alla produzione militare.

In primo luogo, è la pressione della concorrenza geopolitica con l’imperialismo occidentale che impone la logica dell’accumulazione del capitale alla burocrazia stalinista, costringendola a dare priorità agli investimenti nelle industrie pesanti necessarie per rifornire l’esercito. In secondo luogo, Cliff discute brevemente il rapporto tra la tendenza alle crisi economiche inerente al modo di produzione capitalistico e le caratteristiche specifiche del capitalismo di Stato. A questo proposito, egli rileva la caratteristica di quella che definisce “produzione di guerra”, che svolge un ruolo decisivo nell’analisi di Kidron dell’EPA, ovvero che si tratta di una forma di consumo improduttivo: “pur essendo una sottrazione al processo di riproduzione allo stesso titolo del consumo personale della borghesia, [essa] costituisce tuttavia un mezzo nelle mani della borghesia per ottenere nuovo capitale, nuove possibilità di accumulazione”.11

Ma la discussione non è conclusiva. Il testo di Cliff risale al 1947-1948, all’inizio della guerra fredda, prima che l’URSS si dotasse dell’arma nucleare e quindi prima che fossero chiaramente definite le peculiarità di un conflitto geopolitico mondiale regolato dall’inevitabilità della “distruzione mutua assicurata” in caso di guerra generale.

Decodificare la guerra fredda

È qui che Mike Kidron ha dato un contributo decisivo, collocando l’EPA pienamente sviluppata all’interno del meccanismo principale che, secondo Marx, trascina il capitalismo in un ciclo di espansione e recessione: la legge della tendenza al ribasso del tasso di profitto esposta nel terzo libro del Capitale.12 Prima di proseguire, alcune informazioni sull’autore stesso e sul contesto in cui ha sviluppato la sua teoria.13

Kidron è nato a Città del Capo (Sudafrica) nel 1930 in una famiglia sionista benestante che negli anni ’40 emigrò in quella che era ancora la contesa colonia britannica della Palestina, gran parte della quale fu conquistata dal nuovo Stato di Israele durante la Nakba del 1947-1948. Si trasferì in Gran Bretagna nel 1953 per preparare un dottorato al Balliol College di Oxford. Fu rapidamente convinto da Cliff a unirsi al gruppo della Socialist Review, la piccola organizzazione trotskista che lui e sua moglie (e sorella di Mike) Chanie Rosenberg stavano cercando di creare in Gran Bretagna nelle condizioni molto sfavorevoli dell’apice della guerra fredda e di un boom economico senza precedenti. Lo slogan provocatorio del gruppo, che rifiutava i due blocchi mondiali antagonisti, era “Né Washington né Mosca, ma il socialismo internazionale”.

Kidron divenne rapidamente uno dei principali militanti del gruppo e redattore capo della Socialist Review. Roger Cox, un giovane operaio che si unì al gruppo alla fine degli anni ’50, ricorda: “Mike Kidron e Reuben [più tardi Robin] Fior erano incredibilmente affascinanti e davvero divertenti. La cosa più importante era che sapevano ascoltare. Tu parlavi loro della tua vita al lavoro e loro ti ascoltavano”.14

Le qualità intellettuali di Kidron gli permisero di diventare il primo redattore capo della rivista teorica che il gruppo della Socialist Review contribuì a fondare nel 1960, International Socialism (il gruppo prese poi il nome di International Socialists). È sulle pagine di questa rivista che Kidron diede il suo contributo più importante alla teoria economica marxista, in particolare con l’articolo riprodotto qui, che rappresenta l’embrione dell’analisi più completa sviluppata nel suo libro Western Capitalism since the War (1968, 2a edizione 1970).

Kidron non si concentrava esclusivamente sull’EPA. Egli cercava di cogliere le dinamiche specifiche del capitalismo del dopoguerra, che secondo lui differivano sotto molti aspetti dall’imperialismo descritto da Lenin, Trotsky e altri marxisti rivoluzionari all’inizio del XX secolo. A suo avviso, una nuova analisi poteva contribuire a riarmare una sinistra rivoluzionaria che si trovava di fronte a nuove prospettive dopo la crisi dello stalinismo scatenata nel 1956 dal discorso segreto di Nikita Krusciov che denunciava la dittatura di Joseph Stalin e la rivoluzione ungherese che egli aveva contribuito a provocare, dall’ascesa delle lotte anticoloniali e, in Gran Bretagna, l’emergere di un potente movimento di massa contro le armi nucleari.

Kidron apportava a questo compito una profonda conoscenza empirica del funzionamento del capitalismo del dopoguerra, una solida padronanza dei concetti della critica marxista dell’economia politica e la volontà di attaccare le “vacche sacre” dell’ortodossia di sinistra. Queste qualità erano particolarmente evidenti in un articolo pubblicato nel 1962 intitolato “L’imperialismo – lo stadio più alto, ma non l’ultimo [del capitalismo]”, che precede di cinque anni il suo testo di riferimento sull’EPA.

In esso mostra i limiti dell’analisi classica di Lenin, in parte perché quest’ultimo generalizza a partire dal caso particolare del “capitale finanziario” tedesco, ma soprattutto a causa del “cambiamento di luogo e di forme di accumulazione”. Il capitale di investimento è diventato principalmente autofinanziato e concentrato nelle stesse economie occidentali avanzate, rendendo così più accettabile la perdita dell’impero per potenze coloniali come la Gran Bretagna e la Francia.15

Kidron sapeva senza dubbio di cosa stava parlando. In qualità di economista dello sviluppo, ha studiato da vicino l’evoluzione del coinvolgimento del capitale straniero in India, un tempo fulcro finanziario e militare dell’Impero britannico, a seguito dell’indipendenza e dell’ascesa della borghesia indiana che l’ha accompagnata.16

Era un brillante comunicatore, che esprimeva le sue idee con una prosa lucida, incisiva e concisa, e che affascinava il suo pubblico (ne sono testimone personale) con la sua eloquenza, il suo spirito e il suo talento per le metafore. Ma la sua avversione per il dogmatismo di gran parte della sinistra marxista lo ha talvolta portato a esprimere le sue idee in termini erroneamente assoluti. Rifiutare l’imperialismo come una fase transitoria della storia capitalista in un’epoca in cui enormi e sanguinose lotte di liberazione nazionale, in particolare in Algeria, Vietnam, nelle colonie africane del Portogallo e in Palestina, contribuivano ad attirare una nuova generazione verso la politica rivoluzionaria in tutto il mondo, fu un grave errore di valutazione.17

Va sottolineato che Kidron ha dovuto confrontarsi con due approcci errati al capitalismo del dopoguerra. Uno era il dogmatismo di gran parte della sinistra stalinista e trotskista, che sosteneva che nulla fosse fondamentalmente cambiato nel capitalismo del dopoguerra e tendeva a ignorare o minimizzare il boom degli anni ’50 e ’60. Kidron ha fornito l’esempio particolarmente calzante del leader della Quarta Internazionale, Ernest Mandel, che era tuttavia un economista marxista di talento.18

Ma l’altra tendenza ideologica, molto più potente, era quella del mainstream occidentale, che affermava che, grazie alle tecniche keynesiane di gestione della domanda, il capitalismo aveva superato le sue contraddizioni economiche e poteva evitare le vecchie oscillazioni tra espansione e recessione. In Gran Bretagna, questa tesi fu sostenuta con forza da due importanti teorici della socialdemocrazia di destra, Anthony Crosland e John Strachey, egli stesso ex marxista.19

Kidron si oppose fermamente a questo tipo di discorso apologetico. Queste parole, risalenti al 1961, non hanno perso nulla della loro attualità nei decenni successivi: “Qualunque forma assumerà il futuro, sarà caratterizzato da un’instabilità insormontabile, da crisi di tale violenza da mettere in discussione, nella migliore delle ipotesi, la sopravvivenza del capitalismo come sistema mondiale, nella peggiore, quella della civiltà stessa”.20

Questo passaggio è tratto da un articolo in cui Kidron espone per la prima volta la sua teoria dell’EPA, anche se testi successivi ne sviluppano più chiaramente i fondamenti teorici.

Come ho già sottolineato, la teoria di Kidron è incentrata sulla legge della tendenziale caduta del saggio di profitto. Per Marx, la concorrenza costringe i singoli capitali a investire in metodi di produzione migliorati che riducono i loro costi rispetto a quelli dei loro concorrenti. Ma questo comporta un aumento della composizione organica del capitale. In altre parole, l’aumento della produttività del lavoro si traduce in un aumento degli investimenti nei mezzi di produzione rispetto a quelli destinati all’impiego della manodopera. Ora, è il lavoro che crea il nuovo valore, e più in particolare il plusvalore che è la fonte dei profitti.

Nel primo volume de Il capitale, Marx si concentra sul tasso di plusvalore, che confronta il plusvalore con i salari pagati ai lavoratori per crearla. Ma per i capitalisti, la variabile cruciale è il saggio di profitto, che confronta il plusvalore con il capitale totale che essi anticipano, cioè il loro investimento nei mezzi di produzione e nella forza lavoro. L’aumento della composizione organica del capitale comporta una diminuzione del tasso di profitto, anche se il tasso di plusvalore rimane costante o addirittura aumenta.

Come osserva Kidron, Marx sottolinea l’esistenza di “controtendenze”: “Ha sottoposto a lungo la ‘legge’ a ‘se’ e ‘ma’ e ha cercato di spiegare che ‘questo calo [del tasso di profitto] non si manifesta in forma assoluta, ma piuttosto come una tendenza al progressivo calo’, ma lo considerava chiaramente come la tendenza dominante”.21

In realtà, la più importante di queste controtendenze (anche se non è indicata come tale da Marx) è la svalutazione e la distruzione del capitale che si manifesta durante le crisi economiche. Ciò appare chiaramente in quella che è per molti aspetti la parte più importante dell’esposizione di Marx sulla sua legge, il capitolo che Engels ha estratto dal suo manoscritto e intitolato “Sviluppo delle contraddizioni interne della legge”.22 Marx definisce la tendenza al ribasso del saggio di profitto come la forma specifica che assume, nel modo di produzione capitalistico, lo sviluppo delle contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti di produzione. È l’aumento della produttività che porta al ribasso del saggio di profitto:

“Rispetto alla popolazione, l’enorme forza produttiva che si sviluppa nel quadro del modo di produzione capitalistico e l’aumento dei valori-capitale (e non solo del loro substrato materiale), anche se non avviene nella stessa proporzione, che aumentano molto più rapidamente della popolazione, entrano in contraddizione con la base a vantaggio della quale si esercita questa enorme forza produttiva e che, rispetto all’aumento della ricchezza, si riduce sempre più, e con le condizioni di valorizzazione di questo capitale che cresce incessantemente. Da qui le crisi”.23

Il capitale – soprattutto sotto forma di capitale costante – diventa troppo gravoso per essere utilizzato in modo redditizio, il che fa precipitare l’economia nella recessione. Tutto ciò “porta a crisi acute e violente, a svalutazioni improvvise e brutali, a un blocco e a un vero e proprio sconvolgimento del processo di riproduzione, con conseguente diminuzione effettiva della riproduzione”.24

Ma le crisi creano anche le condizioni in cui gli investimenti tornano ad essere redditizi. Le imprese falliscono, i loro beni possono essere acquistati a basso prezzo da quelle sopravvissute; la disoccupazione di massa costringe i lavoratori ad accettare salari più bassi e un ritmo di lavoro più accelerato. La massa del capitale diminuisce e il tasso di plusvalore aumenta. L’aumento della redditività consente infine la ripresa della crescita: “E così il cerchio [Zirkel] si chiude. Una parte del capitale svalutato per aver cessato di funzionare ritroverebbe il suo valore precedente. Per il resto, le cose descriverebbero lo stesso circolo vizioso [fehlerhafter Kreislauf] sulla base di condizioni di produzione ampliate, di un mercato più vasto, di una forza produttiva aumentata”.25

Nella sua prima analisi dell’EPA, Kidron sottolinea quanto la distruzione del capitale sia in realtà funzionale al processo di accumulazione: “Per i marxisti, il problema posto dall’assenza di crisi importanti negli ultimi vent’anni si riduce a un’indagine sui fattori che hanno interrotto la sequenza compulsiva di accumulazione-sovrapproduzione. Logicamente, questi fattori si dividono in due gruppi: o il capitalismo amplia i suoi mercati, oppure distrugge, parzialmente o totalmente, la sua capacità produttiva in costante accumulazione”.

Kidron respinge il primo fattore, che associa alle versioni riformiste del keynesismo: l’aumento dei salari su cui si basano queste spiegazioni finirà per erodere il tasso di profitto. “Questo ci porta al secondo tipo di soluzione che si offre al capitalismo: la distruzione totale o parziale del capitale. Anche nella sua fase più progressista, il capitalismo ha fatto ricorso alla distruzione per mantenersi. Le crisi hanno rovinato il capitale, le guerre ancora di più”.26

È qui che le proprietà specifiche della produzione di armi assumono tutta la loro importanza. Nel secondo libro del Capitale, Marx analizza il processo capitalistico di riproduzione attraverso la circolazione delle merci e del capitale. Questo processo dipende da due grandi settori di produzione: il settore I, che produce i mezzi di produzione, e il settore II, che produce principalmente i mezzi di consumo della classe operaia.

Sebbene Marx non lo formuli esattamente in questi termini, questi due settori rappresentano forme di ciò che egli chiama “consumo produttivo”, poiché i loro prodotti alimentano il processo di produzione fornendo ai lavoratori i mezzi per fabbricare nuove merci e riprodurre se stessi e le loro famiglie. Ma egli nota di sfuggita l’esistenza di una suddivisione, il dipartimento II.b, che, a differenza del dipartimento II.a, che produce i mezzi di consumo della classe operaia, fornisce i “mezzi di consumo di lusso, che entrano solo nel consumo della classe capitalista e possono quindi essere scambiati solo con plusvalore, che non spetta mai al lavoratore”.27

Come abbiamo visto in precedenza, Cliff aveva già sottolineato l’importanza di questo settore per comprendere l’economia del militarismo. Kidron definisce la produzione di armi come una forma di consumo improduttivo. Egli sottolinea l’entità delle spese militari durante la guerra fredda:

“La quota dei bilanci militari nella spesa mondiale è sbalorditiva. Nel 1962, ben prima che il Vietnam facesse esplodere la spesa militare americana (e russa), uno studio delle Nazioni Unite concludeva che circa 120 miliardi di dollari (43 miliardi di sterline) erano spesi ogni anno in spese militari. Ciò rappresentava tra l’8 e il 9% della produzione mondiale di tutti i beni e servizi e almeno i due terzi, se non la totalità, del reddito nazionale di tutti i paesi arretrati. Questa cifra era molto vicina al valore delle esportazioni mondiali annuali di tutte le materie prime. Il confronto con gli investimenti è ancora più sbalorditivo: la spesa militare corrispondeva a circa la metà della formazione lorda di capitale nel mondo.”28

Quest’ultimo confronto è fondamentale per valutare l’entità della spesa militare nel processo di accumulazione del capitale. Il suo effetto è stato quello di sottrarre gran parte del valore che, in condizioni di accumulazione competitiva, sarebbe stato investito in modo produttivo nei settori I e II.a. Se tale investimento fosse stato effettuato, avrebbe comportato un rapido aumento della composizione organica del capitale e quindi una diminuzione del tasso di profitto, ovvero un ritorno al “circolo vizioso” prebellico, caratterizzato da un periodo di espansione seguito da un periodo di recessione.

Gli elevati livelli di spesa militare hanno rallentato il tasso di accumulazione, consentendo una crescita più lenta, ma più stabile e regolare di quella che si sarebbe verificata se la composizione organica crescente del capitale e il calo del tasso di profitto avessero potuto svilupparsi senza ostacoli. È senza dubbio questo che Kidron ha in mente quando parla di “distruzione parziale del capitale” nel passaggio citato sopra. Come riassume succintamente in risposta a un critico, “la spesa militare incide sia sul tasso che sulla massa dei profitti. Esse mantengono il tasso impedendo o rallentando l’aumento della composizione organica del capitale nel settore produttivo – questo è il loro ‘effetto di esaurimento’, la sterilizzazione di grandi quantità di impianti e macchinari legandoli alla spesa militare. Allo stesso tempo, le spese militari riducono la massa dei profitti disponibili per il settore produttivo – hanno un ‘effetto fiscale’. Esse possono mantenere il tasso [di profitto] solo riducendo la massa, e viceversa.”29

Ma anche se l’EPA limitasse temporaneamente il funzionamento dei meccanismi che, secondo Marx, sono i principali motori della crisi, anch’essa deriverebbe dalla stessa logica implacabile dell’accumulazione competitiva. In “Un’economia permanente degli armamenti” e in altri testi, Kidron cerca di confutare l’argomento socialdemocratico secondo cui quella che Keynes chiama “quasi completa socializzazione degli investimenti”, che egli presenta come “l’unico mezzo per garantire un’approssimazione della piena occupazione”, avrebbe potuto svolgere lo stesso ruolo stabilizzatore della produzione di armamenti.30 Tim Barker sostiene che nell’America del dopoguerra: “ [i]l principale vantaggio del keynesismo militare era che non minacciava il controllo capitalista sulle “funzioni decisive”, in primo luogo gli investimenti, “ma ha permesso di realizzare una versione di ciò che Keynes aveva in mente… La spesa per la difesa degli Stati Uniti tra il 1947 e il 1991 ha rappresentato in media il 10,5% del prodotto nazionale netto, con un intervallo compreso tra il 7 e il 16,5%, che corrisponde quasi esattamente alla versione quantitativa di ciò che potrebbe includere la socializzazione degli investimenti secondo Keynes”.31

Il punto di vista di Kidron sul ruolo svolto dall’EPA lo collocava più direttamente nella logica del capitale: “A livello internazionale, il sistema funziona ancora in modo classico, grazie a un costante adeguamento reciproco dei capitali nazionali […] qualsiasi paese che opti per la piena occupazione e la stabilità attraverso investimenti produttivi o anche lavori pubblici improduttivi ‘tappabuchi’ è destinato a soffrire della concorrenza mondiale. La piena occupazione può essere raggiunta, ma solo in modo isolato; e il risultato sarebbe quasi certamente un livello di inflazione tale da escludere l’economia nazionale dai mercati mondiali. Affinché duri, è necessario contenere la capacità degli altri di minarla. In altre parole, la piena occupazione deve essere esportata, e quale miglior vincolo per ‘acquistarla’ se non una minaccia militare esterna? (…) si può ammettere che il passaggio iniziale a un’economia permanente basata sugli armamenti sia stato casuale, senza che ciò influisca sulla questione. Il punto importante è che l’esistenza stessa di apparati militari nazionali delle dimensioni attuali, indipendentemente dalla loro origine, aumenta le possibilità di stabilità economica e obbliga gli altri Stati-nazione ad adottare un tipo di risposta e di comportamento ben definito, che non richiede alcuna sorveglianza da parte di un’autorità globale. La somma di queste risposte costituisce un sistema i cui elementi sono allo stesso tempo interdipendenti e indipendenti gli uni dagli altri, tenuti insieme da una costrizione reciproca – in breve, un sistema capitalista tradizionale”.32

L’effetto stabilizzatore dell’EPA è stato tuttavia solo temporaneo. La corsa agli armamenti incontrollata che ha raggiunto il suo apice durante la guerra fredda era sia una minaccia esistenziale che un peso economico, creando forti pressioni per limitare le spese militari: “L’esistenza di un limite economico alla spesa militare è fondamentale per l’economia permanente degli armamenti. In un’economia di guerra, i limiti sono fissati dalle risorse fisiche e dalla volontà della popolazione di sopportare massacri e privazioni. In un’economia degli armamenti, la capacità dell’economia di essere competitiva nel suo complesso, sia in termini di potenziale distruttivo che in forme più tradizionali, aggiunge un ulteriore vincolo”.33

La pressione per realizzare risparmi sulla spesa militare rafforza la tendenza verso una produzione di armamenti più specializzata dal punto di vista tecnologico e più intensiva in termini di capitale, riducendo così i benefici che essa aveva precedentemente apportato alla produzione civile e dando luogo a “una forma persistente di disoccupazione in un’economia permanente basata sugli armamenti. I rapidi, imprevisti e imprevedibili cambiamenti tecnologici nelle industrie degli armamenti, soggetti a un tetto massimo di spesa, creano zone industriali regionali afflitte dalla disoccupazione che rimangono in gran parte insensibili alle misure fiscali e monetarie generali, e strati di popolazione non qualificati, inoccupabili nelle tecnologie avanzate in continua evoluzione. Ancora una volta, il boom economico in Occidente oscura questa realtà, ma la difficile situazione delle zone cantieristiche qui e negli Stati Uniti, i problemi dell’industria aeronautica statunitense, e persino i problemi dei neri americani, devono almeno in parte la loro intensità all’evoluzione delle spese militari e alla crescente complessità della produzione per uso militare”.34

Questa analisi coincide in modo interessante con quello che è forse il punto culminante dello studio di Tim Barker sul “keynesismo militare” statunitense: la sua analisi del boom della guerra del Vietnam, che si svolgeva mentre Kidron sviluppava la sua teoria dell’EPA. Si trattava di un boom incentrato sulle industrie ad alta tecnologia che alimentavano una campagna militare condotta principalmente con bombe e missili, come tante altre guerre condotte dall’imperialismo anglo-americano. Ha fatto salire l’inflazione, che ha colpito inizialmente i beni strumentali per poi estendersi al resto dell’economia, ma ha colpito anche le industrie più orientate al consumo, come l’edilizia e l’automobile, portandole alla depressione. Questo mix esplosivo ha provocato una recrudescenza del militante operaio, che ha interagito con le rivolte nei centri urbani, la più potente delle quali – Detroit nel luglio 1967 – ha avuto luogo a Motown, dove la disoccupazione dei neri era passata dal 3 all’8% nei due anni precedenti.35

Un aspetto trascurato dell’analisi di Kidron è la sua preoccupazione di comprendere l’impatto dell’EPA sui lavoratori: l’alto livello di occupazione e il crescente dominio economico delle grandi imprese industriali hanno permesso ad alcuni di acquisire potere grazie allo sviluppo di negoziazioni salariali decentralizzate a livello di fabbrica, ma ne hanno esclusi altri, in particolare i neri negli Stati Uniti.36 Ciò rifletteva la più ampia preoccupazione politica del gruppo Socialist Review/IS (notata da Roger Cox nei suoi ricordi degli anni ’50 e ’60) per le realtà della lotta della classe operaia durante il long boom.

L’eredità

La fine degli anni ’60 segna una svolta. La spesa militare inizia a diminuire in percentuale del PIL statunitense e, nonostante un forte aumento sotto Jimmy Carter e Ronald Reagan, al culmine della “seconda guerra fredda” nel 1979-1985, non torna mai ai livelli raggiunti negli anni ’50 e ’60.37

Sotto la presidenza di Richard Nixon (1969-1974), gli Stati Uniti cercarono di ritirarsi dall’Indocina, di concludere accordi di distensione e controllo degli armamenti con l’URSS e di invertire il declino della competitività delle industrie civili statunitensi rispetto ai capitalismi rinati della Germania occidentale e del Giappone. Lo “shock Nixon” dell’agosto 1971, quando l’amministrazione statunitense abbandonò il gold standard e impose una sovrattassa del 10% sulle importazioni, fu un tentativo di raggiungere quest’ultimo obiettivo.

Il risultato fu un boom economico intenso ma di breve durata, che alimentò l’inflazione mondiale e portò, nel 1973-1975, alla prima grande recessione del dopoguerra. A questa seguì una recessione ancora più grave dopo che il presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, aumentò drasticamente i tassi di interesse nell’ottobre 1979, riuscendo così a spezzare la spirale inflazionistica e a disciplinare la forza lavoro. Questo “shock Volcker” segnò l’avvento globale del neoliberismo.38

La previsione di Kidron secondo cui l’EPA sarebbe diventata una fonte crescente di instabilità ci aiuta a comprendere questo ritorno delle crisi. Con il trasferimento degli investimenti dal settore degli armamenti alle industrie civili, si sono riaffermate le tendenze classiche analizzate da Marx, ovvero l’aumento della composizione organica del capitale e l’aumento del tasso di profitto. Numerosi studi marxisti dimostrano infatti che è proprio alla fine degli anni ’60 che il capitalismo entra nella crisi di redditività che gli sforzi neoliberisti volti ad aumentare il tasso di sfruttamento hanno solo parzialmente superato (vedi tabella 1 sotto).39

Michael Roberts, eminente ricercatore marxista specializzato nella legge della redditività, a cui devo il grafico qui sotto (e molte altre cose), ha recentemente citato il calo della spesa militare rispetto al PIL durante la fase finale del lungo boom degli anni ’60 come prova contro la teoria dell’EPA.40

Ma Kidron non ha mai sostenuto che l’industria degli armamenti fosse l’unica forza motrice della crescita economica: altri fattori hanno avuto un ruolo, ad esempio la distruzione del capitale durante la guerra e l’espansione della forza lavoro urbana dopo la guerra con l’arrivo di donne sposate, migranti e contadini. Roberts poi esagera la buona salute del capitalismo occidentale negli anni ’60, un periodo caratterizzato da una crescente instabilità, dovuta non solo alle lotte operaie e alle rivolte urbane, ma anche alle crisi monetarie che hanno colpito prima la sterlina britannica e poi il dollaro, tutti sintomi del relativo declino della Gran Bretagna e degli Stati Uniti e della crescente internazionalizzazione del capitale.

Tabella 1: Calo del tasso di profitto dalla fine degli anni ’60.
Fonte: Michael Roberts, “A World Rate of Profit: Important New Evidence”, 22 gennaio 2022 [online].

Lo stesso Kidron divenne scettico riguardo alla propria teoria. Alla fine degli anni ’60 era sempre più insoddisfatto della svolta presa dalla corrente IS (International Socialists), che reclutava studenti e lavoratori radicalizzati dai tumulti dell’epoca verso forme di organizzazione leniniste, un processo che portò alla sua trasformazione nel Socialist Workers Party nel 1977. In un articolo che ho commissionato come redattore capo della rivista del SWP International Socialism per il suo centesimo numero di quell’anno, Kidron mise in dubbio la capacità dell’EPA e, più in generale, della teoria marxista tradizionale di comprendere un mondo che cadeva sempre più sotto il dominio di capitali statali integrati a livello nazionale.41

Si trattava di un altro grave errore di valutazione, data la tendenza all’internazionalizzazione del capitale e alla sottomissione delle imprese e degli Stati alle discipline di mercato che il neoliberismo avrebbe innescato. Chris Harman, un giovane pensatore che condivideva le idee di Kidron, all’epoca gli diede una risposta convincente, per poi proseguire il suo lavoro, in particolare in due libri che integravano la teoria dell’EPA in un quadro molto più ampio della storia del capitalismo.42

Tuttavia, anche in questo caso, l’argomentazione di Kidron conteneva un fondo di verità. Egli sottolineava costantemente gli effetti della concentrazione e della centralizzazione del capitale che l’EPA contribuiva a rafforzare: “Man mano che il capitalismo invecchia, i suoi capitali costitutivi diventano meno numerosi e più importanti, più pericolosi e vulnerabili gli uni verso gli altri, e più pericolosi e vulnerabili nei confronti dei lavoratori.”43

Nei suoi scritti economici, Harman era profondamente influenzato dal tema dell’invecchiamento del sistema, anche se, alla vigilia dell’era neoliberista, dimostrava che ciò non contraddiceva in alcun modo la tendenza all’internazionalizzazione del capitale. La crescita delle dimensioni del capitale significa che, se gli ultimi decenni hanno visto il ritorno del “circolo vizioso” di espansione e recessione, causato in ultima analisi dalla bassa redditività, la distruzione di capitale nella misura necessaria per ripristinare il corretto funzionamento del sistema è diventata troppo grande per essere rischiosa.

Da qui, in particolare dopo la crisi finanziaria mondiale del 2007-2009, il ruolo svolto dallo Stato (principalmente sotto forma di banche centrali) nel mantenere a galla i mercati finanziari attraverso tassi di interesse molto bassi e iniezioni di liquidità. L’impennata inflazionistica seguita alla pandemia di COVID-19 ha notevolmente complicato il compito delle banche centrali in materia di gestione economica, ma soprattutto lo ha reso più importante.44

Qual è il ruolo della produzione militare in questo sistema in crisi? Secondo l’Istituto internazionale di studi strategici: “La spesa mondiale per la difesa ha raggiunto i 2.460 miliardi di dollari nel 2024, contro i 2.240 miliardi del 2023. La crescita in termini reali ha raggiunto il 7,4% nel 2024, contro il 6,5% del 2023 e il 3,5% del 2022… In percentuale del PIL, la spesa mondiale è passata da una media dell’1,59% nel 2022 all’1,80% nel 2023 e all’1,94% nel 2024”.45

Questa cifra è nettamente superiore, in termini reali, al totale di 120 miliardi di dollari riportato da Kidron per il 1962, pari a 1.262 miliardi di dollari odierni. Tuttavia, rappresenta una percentuale molto inferiore del PIL mondiale rispetto all’8-9% rivendicato all’epoca dal settore militare.

L’aumento della produttività e della produzione ha ridotto il peso economico del settore degli armamenti per gli Stati e quindi la sua capacità di contrastare la tendenza al ribasso del tasso di profitto. Ma il peso economico ridotto della produzione militare non ha affatto diminuito la capacità di distruzione che essa conferisce agli Stati, come vediamo nelle guerre condotte da Israele contro il popolo palestinese e tra Russia e Ucraina, senza nemmeno considerare la capacità delle potenze nucleari di distruggere più volte l’umanità.

Viviamo ancora all’ombra della distruzione mutua assicurata. L’aumento delle spese “per la difesa” indica che siamo entrati in una corsa agli armamenti senza precedenti dalla fine della guerra fredda. È quindi logico tornare sugli sforzi che i marxisti di quel periodo hanno compiuto per capire come la logica compulsiva della concorrenza inter-capitalistica plasmi le prospettive di sopravvivenza dell’umanità.


  1. Max Weber, General Economic History, New Brunswick: Transaction Publishers, 1981, cfr. cap. 20, 22 e 23. ↩︎
  2. Alex Callinicos, The New Age of Catastrophe, Cambridge, Polity, 2023, cap. 4. ↩︎
  3. Zaynab Quadri, “Anatomy of a Defense Budget”, Phenomenal World, 27 marzo 2025 [online]. ↩︎
  4. Cfr. Fred Halliday, The Making of the New Cold War, Londra, Verso, 1983, cap. 1. ↩︎
  5. L’importanza del Terzo Mondo come teatro della guerra fredda è un tema centrale dell’affascinante recente opera di Sergey Radchenko sulla storia della guerra fredda vista dalla Russia: To Run the World: The Kremlin’s Cold War Bid for Global Power, Cambridge, Cambridge University Press, 2024. ↩︎
  6. Tim Barker, Cold War Capitalism: The Political Economy of American Military Spending, 1947-1990, Tesi di dottorato, Harvard University, 2022, p. 4. ↩︎
  7. Michael Kidron, Western Capitalism since the War, Harmondsworth, Penguin, 1970, p. 11. ↩︎
  8. Tim Barker, Cold War Capitalism… , op. cit., pp. 1-2, e cap. 3. ↩︎
  9. L’unico riferimento a Kidron si trova in una nota a piè di pagina che include Western Capitalism since the War in un elenco di studi contemporanei sul capitalismo americano del dopoguerra , ibid., p. 2, n. 6. ↩︎
  10. Tony Cliff, “Perspectives for the Permanent War Economy”, in Marxist Theory after Trotsky: Selected Writings, vol. 3, Londra, Bookmarks, 2003, pp. 169-75 [online]. ↩︎
  11. Tony Cliff, “The Nature of Stalinist Russia”, in Marxist Theory after Trotsky, op. cit., p. 111; vedi in generale ibid., capitoli 7 e 8 [online]. Sul contributo più ampio di Cliff, vedi Alex Callinicos, Trotskyism, Milton Keynes, Open University Press, 1990, cap. 5 [online]. ↩︎
  12. Cfr. Karl Marx, Il capitale, Libro III, vol. 1, Ed. Sociali, 1974, Sezione 3: “Legge della tendenziale caduta del tasso di profitto”, pp. 225-278. Sulla teoria delle crisi di Marx, cfr. Alex Callinicos, Deciphering Capital: Marx’s Capital and Its Destiny, Londra: Bookmarks, 2014, cap. 6. ↩︎
  13. Sono qui debitore dell’eccellente raccolta degli scritti di Kidron curata e presentata da Richard Kuper con l’aiuto di John Rudge: Capitalism and Theory: Selected Works of Michael Kidron, Chicago, Haymarket, 2018. I suoi articoli citati qui sono (con una sola eccezione) tratti da questa raccolta. ↩︎
  14. Roger Cox, “Marxist Politics at Work during the Long Boom and Its Breakdown”, International Socialism, n° 161, 2019 [online]. ↩︎
  15. Michael Kidron, “Imperialism – Highest Stage but One”, International Socialism, n° 9 (1962), [online]. ↩︎
  16. Michael Kidron, Foreign Investments in India, Oxford: Oxford University Press, 1965. ↩︎
  17. Per un approccio alternativo, largamente ispirato a Kidron, che presenta l’imperialismo capitalista come un fenomeno storico in evoluzione, si veda Alex Callinicos, Imperialism and Global Political Economy, Cambridge, Polity, 2009, cap. 4. ↩︎
  18. Michael Kidron, “Maginot Marxism: Mandel’s Marxism”, International Socialism, n° 36, 1969 [online]. Si tratta di una critica all’opera di Mandel, Traité d’économie marxiste (edizione in lingua inglese: Marxist Economic Theory, 2 vol., Londra, Merlin, 1968). In un’opera successiva, e migliore, Le troisième âge du capitalisme (1972, 1a edizione francese Parigi, UGE 10/18 1976, riedizione Parigi, Editions de la Passion, 1995), Mandel cerca effettivamente di affrontare e spiegare il lungo periodo di prosperità. ↩︎
  19. Cornelius Castoriadis, ex marxista del gruppo “Socialisme ou barbarie”, è un altro esempio più militante di questa tendenza: cfr. Callinicos, Trotskyism, op. cit., pp. 66-72. ↩︎
  20. Michael Kidron, “Reform and Revolution: Rejoinder to left Reformism II”, International Socialism, n° 7, 1961 [online]. In quanto segue, mi ispiro ampiamente all’eccellente analisi teorica e storica della teoria di Kidron proposta da Joseph Choonara: “The Monetary and the Military: Revisiting Kidron’s Permanent Arms Economy”, International Socialism, n. 171, 2021 [online]. ↩︎
  21. Kidron, “A Permanent Arms Economy”, op. cit. ↩︎
  22. Karl Marx, Il capitale, Libro III, vol. 1, op. cit., cap. 14; “Sviluppo delle contraddizioni interne della legge”, pp. 254-278. ↩︎
  23. Ibid., p. 278. ↩︎
  24. Ibid., p. 267. ↩︎
  25. Ibid., pp. 267-268. ↩︎
  26. Michael Kidron, “Reform and Revolution”, op. cit. ↩︎
  27. Karl Marx, Il capitale, Libro II, vol. 1, Paris, Editions sociales, 1974, pp. 5–57. Marx limita il “consumo produttivo” al solo dipartimento I, ma il suo ragionamento è più chiaro se l’espressione viene estesa al dipartimento II (a), che egli chiama “consumo individuale” delle famiglie operaie. Kidron ha poi dedicato uno studio al fenomeno più ampio delle spese improduttive nel capitalismo tardivo: (1974) “Waste: US 1970”, ripreso in Capitalism and Theory…, op. cit. ↩︎
  28. Kidron, “Un’economia permanente degli armamenti”. ↩︎
  29. Michael Kidron, “For Every Prince There is a Princess: David Yaffe and the Draft Programme” [online]. Sono molto grato a Joseph Choonara per avermi ricordato questo testo estremamente breve e lucido, pubblicato nel Bulletin interne dell’IS nel marzo 1973 e non incluso nella raccolta Capitalism and Theory. Il titolo originale del testo di Mike era “Every Talmud has a Torah, and every programme has a Yaffe” (Ogni Talmud ha la sua Torah, e ogni programma ha il suo Yaffe), ritenuto troppo oscuro. Nelle sue citazioni più famose sulla sua teoria dell’EPA, Kidron ha creato un po’ di confusione riferendosi all’affermazione degli economisti neoricardiani, in particolare Ladislaw von Bortkiewicz e Piero Sraffa, secondo cui il tasso di profitto nel settore del lusso non ha alcun ruolo nella formazione del tasso di profitto generale. Ciò ha attirato le critiche di Yaffe e altri, ma non è necessario affinché la sua argomentazione sia valida. Per ulteriori approfondimenti su questo punto, cfr. Choonara, “The Monetary and the Military…”, op. cit. ↩︎
  30. John Maynard Keynes, The General Theory of Employment Interest and Money, Londra, Macmillan, 1970, p. 378. ↩︎
  31. Tim Barker, Cold War Capitalism…, p. 8; cfr. più in generale, ibid., pp. 4-14. ↩︎
  32. Kidron, “Un’economia permanente degli armamenti”. ↩︎
  33. ibid. ↩︎
  34. ibid. ↩︎
  35. Cfr. Tim Barker, Cold War Capitalism…, op. cit., cap. 5. ↩︎
  36. Cfr. in particolare Kidron, Western Capitalism since the War, parte 2. ↩︎
  37. Cfr. diagrammi 18 e 19 in Tim Barker, Cold War Capitalism…, p. 408. ↩︎
  38. Si veda l’analisi dettagliata in Robert Brenner, The Economics of Global Turbulence: The Advanced Capitalist Economies from Long Boom to Long Downturn, 1945-2005, Londra & New York, Verso, 2006, terza parte. ↩︎
  39. Si veda anche Guglielmo Carchedi e Michael Roberts (a cura di), World in Crisis: A Global Analysis of Marx’s Law of Profitability, Chicago, Haymarket, 2018. ↩︎
  40. Michael Roberts, “ From Welfare to Warfare: Military Keynesianism ”, 22 marzo 2025 [online]. L’errata critica di Roberts si spiega probabilmente in parte con il fatto che egli considera la teoria di Kidron un esempio di keynesismo militare, cosa che evidentemente non è. Grazie a Joseph Choonara per questa osservazione e per gli altri suoi utilissimi commenti sulla versione preliminare di questo testo. ↩︎
  41. Michael Kidron, “Two Insights Don’t Make a Theory”, International Socialism, n. 100, 1977 [online], vedi anche “Modern Capitalism”, International Socialism, n. 162, 2019. Si tratta del testo (a cura di John Rudge e accompagnato da un’introduzione scritta da me) di una conferenza tenuta da Mike e della discussione che ha suscitato durante il festival Marxism 1977 organizzato dallo SWP. I testi e gli articoli editoriali forniti da Kuper e Rudge in Capitalism and Theory contengono molte informazioni preziose sull’evoluzione politica e teorica di Kidron negli anni ’60. ↩︎
  42. Chris Harman, “Better a Valid Insight Than a Wrong Theory”, International Socialism, n. 100, 1977 [online]; Explaining the Crisis: A Marxist Reappraisal, Londra, Bookmarks, 1984; Zombie Capitalism: Global Crisis and the Relevance of Marx, Londra, Bookmarks, 2009. ↩︎
  43. Kidron, “For Every Prince There is a Princess”, op. cit. ↩︎
  44. Cfr. Callinicos, The New Age of Catastrophe, op. cit., cap. 3. ↩︎
  45. IISS, “Defence Spending and Procurement Trends”, 12 febbraio 2025 [online]. ↩︎

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