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Me-Ti

“Femminismi nemici”: il caso italiano

Viola Carofalo

Pubblichiamo l’intervento tenuto da Viola Carofalo alla sesta edizione della scuola femminista delle Asturie AMA (10-13 luglio 2025).


Ciao a tutte compagne, in questo mio intervento vorrei provare a raccontarvi del contesto che, come femministe italiane, stiamo vivendo in particolare dell’avanzata dei cosiddetti femminismi di destra, quelli che Sophie Lewis chiama femminismi nemici, e della strumentalizzazione di molte delle nostre istanze.

Come certamente sapete dal 2022 la Presidente del Consiglio – lei ci tiene moltissimo e ha sottolineato più volte che vuole essere chiamata IL Presidente – è Giorgia Meloni leader di un partito, Fratelli d’Italia, di stampo neofascista, che si è orgogliosamente definita: “Donna, madre e cristiana”.

Nel suo discorso di insediamento, Meloni ha fatto un vero e proprio capolavoro, non ha rimosso il suo essere donna, la prima in assoluto In Italia ad essere a capo di un Governo, ma l’ha rivendicato in una maniera molto specifica:

Tra i tanti pesi che sento gravare sulle mie spalle oggi, non può non esserci anche quello di essere la prima donna a capo del governo in questa Nazione. Quando mi soffermo sulla portata di questo fatto, mi ritrovo inevitabilmente a pensare alla responsabilità che ho di fronte alle tante donne che in questo momento affrontano difficoltà grandi e ingiuste per affermare il proprio talento o il diritto di vedere apprezzati i loro sacrifici quotidiani. Ma penso anche, con riverenza, a coloro che hanno costruito con le assi del proprio esempio la scala che oggi consente a me di salire e rompere il pesante tetto di cristallo posto sulle nostre teste”. Di qui in avanti Meloni inizia a citare una serie di italiane famose dalla pedagoga Maria Montessori, alla scienziata Rita Levi Montalcini, alla giornalista dalle posizioni islamofobe Oriana Fallaci, fino ad arrivare a Nilde Iotti, tra le più note politiche italiane della prima Repubblica, partigiana, membro del Partito Comunista Italiano e dell’Assemblea Costituente. Quello che fa trasalire non è soltanto il richiamo a Iotti, che chiaramente sarebbe stata sua avversaria politica, ma un altro particolare e si rivela tutt’altro che un dettaglio. In questo lunghissimo elenco di donne illustri tutte le protagoniste sono chiamate con il solo nome proprio: Rita, Tina, Maria, Nilde, etc.

È una provocazione, neanche tanto sottile. Il presidente Meloni mette subito le cose in chiaro: lei non rifiuta le istanze femministe anzi le fa sue e, a differenza delle forze parlamentari di centrosinistra, vuole difendere non soltanto poche privilegiate, ma tutte le donne soprattutto delle classi popolari. Però non si occupa di questioni “poco serie” come quelle legate al linguaggio e nemmeno “private” come considera essere quelle riguardanti l’orientamento sessuale. Lei si occupa di cose concrete: lavoro, sanità. E appare credibile, a differenza di molti populisti di destra, anche grazie alle sue origini realmente popolari e militanti la aiutano. Parla chiaro e senza tanti fronzoli.

È celebre uno scambio con una delle parlamentari dell’opposizione che la criticava per non avere abbastanza a cuore la libertà delle donne e per aver promosso i movimenti pro-vita.

Meloni risponde: “Ho sentito dire che io vorrei le donne un passo dietro agli uomini (risate in Parlamento) mi guardi onorevole Serracchiani le sembra che io stia un passo dietro agli uomini? (…) Io stamattina ho parlato di lavoro di welfare di una società che non costringa a scegliere tra lavoro e maternità”, sono una donna privilegiata per la posizione che ricopro, sottolinea, ma non tutte lo sono come me e io penso e provvedo a quelle donne.

A questo punto direte voi: ma stiamo ascoltando un elogio di Giorgia Meloni? Ovviamente no!

Quello che sto provando a fare, nei limiti di un breve intervento, è capire come mai il suo discorso riesca ad essere così popolare, efficace e guadagnare terreno. Soprattutto perché mi sembra che in molti altri contesti, quello francese in primis, ma anche negli Stati Uniti, sia sempre più chiara una capacità di affermarsi dei femminismi nemici, ovvero punitivisti, transfobici, neoliberisti, nazionalisti. E allora piuttosto che dipingere le nostre nemiche come delle rozze imbonitrici è forse più utile capire come mai il loro discorso riesce a fare così tanta presa.

Vorrei fare altri due esempi molto recenti per mostrare quali siano le strategie del Governo  italiano, strategie che rischiano di rivelarsi vincenti, e di conquistare alla loro parte anche molti dei “nostri”.

Il 7 marzo di quest’anno il governo Meloni in conferenza stampa ha annunciato un disegno di legge “contro la violenza sulle donne e il femminicidio”, vantandosi di essere il primo governo In Europa a introdurre questo specifico reato nel codice penale (non solo come aggravante ma come reato a sé stante) e di renderlo punibile con l’ergastolo, ovvero il carcere a vita. Inutile dire che in un paese nel quale viene uccisa una donna ogni tre giorni e in cui le notizie dei femminicidi sono particolarmente discusse (spesso con una buona dose di voyerismo e morbosità) soprattutto quando le vittime sono giovani studentesse carine la cui foto può essere sbattuta in prima pagina, o quando gli assassini sono soggetti razzializzati, immigrati, appartenenti alle classi disagiate e più povere (il ministro dell’Interno Piantedosi non manca mai di ripeterci che la violenza contro le donne “fa parte intrinsecamente della ‘loro’ cultura”).

Il giorno seguente, l’otto marzo sembrava non si riuscisse a parlare d’altro (e si diceva, più o meno sottovoce, anche in ambienti femministi: “eh però non male questo governo Meloni…”).

Il secondo episodio è di soltanto pochi giorni fa: nell’unico municipio di Roma governato dalla destra, quello di Tor Bella Monaca, viene aperto, in un momento nel quale i centri antiviolenza per le donne scarseggiano e non vengono finanziati né sostenuti con fondi pubblici, un centro antiviolenza specifico per uomini molestati, che hanno subito violenza fisica ma che sono anche vittime della fantomatica “alienazione parentale”. Ovviamente si tratta di un’operazione propagandistica, dell’utilizzo di una “falsa equivalenza” come metodo di delegittimazione per le rivendicazioni femministe. Forse qualche anno fa ci sarebbe sembrata surreale e ci avremmo riso su. Oggi scatena un gran dibattito perché, si dice, “tutte le violenze sono uguali! Non si capisce perché gli uomini non dovrebbero essere protetti e supportati proprio come le donne!”.

Evidentemente nessuno nega che ci possano essere degli uomini che subiscono violenza, le donne non sono angeli, ma fino a poco tempo fa forse sarebbe stato chiaro a tutti che si tratta di casi isolati, di dinamiche interpersonali, relazionali, ma che non hanno natura sistemica.

Bisogna prendere sul serio quello che un tempo avremmo detto essere solo una mossa pubblicitaria, ma mi sembra che la strumentalizzazione, la svalutazione delle battaglie transfemministe o addirittura la loro criminalizzazione, stiano diventando sempre di più nel mio paese un mezzo per costruire consenso.

E soprattutto per nascondere quella che a ben vedere è un’evidenza: ovvero che dal punto di vista materiale, delle politiche di contrasto alla povertà, per il lavoro e per la sanità, questo governo non sta facendo assolutamente nulla.

Alle persone deprivate, delle periferie, soprattutto uomini, giovani uomini (tra i quali il consenso per “Fratelli d’Italia” è in forte crescita) questi discorsi rischiano di dare, attraverso la rabbia e l’odio, consolazione e soprattutto identità e visibilità pubblica. A quello che un tempo in Italia era il Nero – l’immigrato da iper sfruttare e su cui riversare disgusto e rancore – oggi sembra essersi affiancata la Donna (o meglio, la femminista) che non sa “stare al suo posto”.

Non si può non sottolineare che se le parole della destra funzionano è proprio perché ad esse è contrapposta l’inconsistenza di un centrosinistra, del Partito Democratico, che da sempre si presenta come poco concreto, “umanitario” nel senso peggiore del termine, e soprattutto estremamente elitario. Che negli ultimi 30 anni ha avuto un ruolo determinante nella distruzione del welfare e dei diritti, anche e soprattutto delle donne, concentrandosi solo su battaglie formali e “di facciata”.

Come sottolinea Houria Bouteldja (Beaufs et barbares: Le pari du nous, 2024), ci sono molti uomini nelle periferie, nelle classi popolari che devono essere riconquistati al fronte delle persone oppresse se non vogliamo che pensino di trovare il loro posto altrove, perpetuando forme più o meno microscopiche di violenza e dominio nei confronti di chi sta peggio di loro – le donne, le persone razzializzate, etc. – e questo non può farlo un progressismo moralista, astratto e lontano dalla realtà.

Questo dobbiamo farlo noi. È, mi sembra, uno dei nostri compiti per gli anni a venire.

La falsa contrapposizione tra maschi poveri, talvolta razzializzati, che vivono in condizioni di precarietà, e donne e persone della comunità queer, serve solo a spaccare un fronte che sarebbe altrimenti naturalmente unito da interessi simili. Quelli legati alla necessità uscire da una condizione di oppressione e di abbandono, di trovare un proprio posto nel mondo.

Catherine Malabou [Changer de différence. Le féminin et la question philosophique, 2009] propone un concetto minimale di donna o, meglio, di femminile, che credo possa esserci utile, che non riguarda sole le persone assegnate come tali dalla nascita, nemmeno quelle che procedono in un percorso di transizione, ma che tiene assieme tutti quei soggetti che sono implicati in un processo di femminilizzazione. (Si parla a proposito della precarizzazione, del lavoro ‘nero’, della mancanza di tutele, di ‘femminilizzazione del lavoro’, processo che evidentemente riguarda moltissimi maschi, persone trans, non binarie etc. europee, straniere).

Un processo di esposizione alla violenza materiale e simbolica senza protezioni esterne né tutele che riguarda la maggioranza delle persone sulla terra. Anche interi popoli. Sto pensando alla Palestina. Dire che la precarizzazione del lavoro, che il colonialismo e la guerra, che la Palestina sono questioni femministe, non significa parlare del femminile come plasmato solo dall’oppressione ma anche e soprattutto dalla capacità di rispondere e di resistere. Significa trovare il minimo comun denominatore per costruire un fronte comune.

Il 30 novembre 2023 (Giornata contro la violenza sulle donne) ci sono state a Roma e in tutta Italia, come ogni anno, manifestazioni di piazza molto partecipate. C’era stato da poco il femminicidio di Giulia Cecchettin per mano dell’ex fidanzato, un caso che aveva fortemente colpito l’opinione pubblica. Alcune intellettuali e gruppi femministi (potremmo definirli nemici? Non so, certamente non alleati), per fortuna minoritari, si sono battuti perché NON fossero portate in piazza bandiere palestinesi per due ragioni:

– per “rispetto” alle donne israeliane alle quali era stata fatta violenza il 7 ottobre, perché Israele rappresenta la punta avanzata dei diritti civili e invece la Palestina, l’Islam (facendo per altro un’assurda equazione e generalizzazione) perseguita le donne e le persone queer1;

– per non politicizzare una questione, quella della violenza, che riguarda tutte e che non ha parte o colore politico (!) e non distogliere l’attenzione dal tema dei femminicidi.

Sul primo argomento non mi soffermo nemmeno. Sul secondo tutto quello che ho da dire è che la depoliticizzazione delle battaglie femministe, sostenere che riguardano le donne in generale, in astratto, e non le donne in carne e ossa (sfruttate, colonizzate, oppresse dalla guerra) rende facile il compito ai nostri nemici: ai femminismi di destra, al femonazionalismo, a un’idea della politica completamente separata dai bisogni materiali delle persone che vogliamo difendere e del fronte di cui facciamo parte.

La strada da percorrere per ricostruire un femminismo realmente popolare, materialista, internazionalista è ancora molto lunga, dissestata e tutta da spianare. Ma questo giugno, dopo quasi due anni di battaglia su questo tema, al Pride, in tutta Italia, sventolavano migliaia di bandiere della Palestina.

  1. Su questo rimandiamo a https://www.progettometi.org/analisi/rage-sense-and-sensibility/ ↩︎

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