Sulla giornata di ieri 22 settembre, come crediamo un po’ tutte le persone che hanno partecipato allo sciopero e alle manifestazioni di piazza per la Palestina e lo stop al genocidio, abbiamo letto tanti commenti sui social, sui giornali, etc. Vorremmo dire due parole su un argomento che ci sembra tanto importante quanto trascurato: il modo in cui questa giornata è stata costruita, in cui è cresciuta e germogliata.
Perché a ben vedere è proprio di questa costruzione che nessuno parla e la rappresentazione ricorrente che ritroviamo, anche da parte di voci insospettabili perché esperte in dinamiche politiche e di movimento, è che stante una certa sensibilità – che si sarebbe prodotta spontaneamente a furia di assistere alle brutalità e alle ingiustizie inflitte al popolo palestinese, a furia di assistere al primo genocidio in diretta mondiale – le mobilitazioni esplodono, le piazze traboccano di gente, i cortei vanno a bloccare tutto, i cuori si infiammano e i potenti si inginocchiano (ma magari!).
Leggendo Il Manifesto ma anche riviste autorevoli e vicine come Jacobin Italia ci sembra che la narrazione prevalente sia quella di un movimento che nasce e che cresce praticamente in autonomia. L’USB e gli altri soggetti organizzatori sono nominati a stento e quasi per errore, seguendo la retorica secondo cui lo sciopero lo hanno chiamato loro, sì, ma chiunque si fosse presentato a quell’“appuntamento con la Storia” avrebbe ottenuto il medesimo risultato. Questa narrazione non è solo falsata, ma, a nostro avviso, pericolosa. Perché sebbene sia ovvio e scontato che non tutte le persone scese in piazza abbiano in tasca la tessera del sindacato di base il chi e il come si fanno le cose non è irrilevante ai fini del risultato, anzi.
Ogni mobilitazione, ogni azione politica ben riuscita, è il risultato dell’incrocio di fattori oggettivi – il clima che si respira, cosa concretamente accade in una data congiuntura storica – e soggettivi – chi interviene a lavorare su quel clima, che autorevolezza e risorse ha, che racconto è in grado di costruire e quale sensibilità sta orientando e verso dove.
Puntare tutto sulla dimensione oggettiva, sull’atmosfera, e non su chi concretamente ha lavorato, non da un giorno o da un anno, ma in maniera spesso sotterranea e invisibile, da decenni significa delegittimare quel “grigio lavoro quotidiano” che non deve essere riconosciuto perché ha valore morale – qualcuno si è sacrificato, qualcuno si è impegnato – ma perché ha valore politico, ovvero efficacia, permette di raccogliere risultati durevoli.
Non si tratta dunque di ricercare paternità o di mettere medaglie, ma di identificare e di replicare il lavoro e la strategia che ci hanno consentito di vivere piazze come quella di ieri.
Lo scriveva Fanon parlando della lotta di liberazione algerina: la spontaneità è grande e, allo stesso tempo, pericolosa. È bella, potente, ma è anche un’arma a doppio taglio. Far leva sull’idea che basti la rabbia, che basti l’indignazione (più una piccola, piccolissima spintarella dal primo che capita) per far nascere un movimento è come dire che l’oppressione e il disagio, da soli, producono rivoluzioni. Noi lo sappiamo bene perché lo viviamo quotidianamente: spesso l’unico frutto del disagio, quando anche riusciamo a dargli un nome e a individuarne l’origine, sono la depressione e la passivizzazione.
È solo la costruzione di un livello soggettivo – di capacità e competenze, di un livello organizzativo solido, di una credibilità – che ci consente di non ripiegarci su noi stessi e rifluire, con i nostri sogni e speranze, a ogni cambio di vento, a ogni momento di stagnazione.
Lo stesso Marx sosteneva che l’entità di una vittoria o di una sconfitta non si misura a partire dal singolo risultato ottenuto, ma dai livelli di organizzazione e rafforzamento del livello soggettivo che esse producono. Detto in soldoni: è possibile che la singola vertenza fallisca, ma se ha lasciato dietro di sé non macerie e disperazione ma voglia e capacità di attivarsi sempre maggiori allora dietro a quella apparente sconfitta si nasconderà un avanzamento e una conquista.
Quindi: è ovvio che quando una data o un movimento riesce finisca per travalicare chi l’ha chiamata. E per fortuna. D’altronde questo è sempre successo. È solo un mito pensare che la rivoluzione la fa un partito solo, un sindacato solo, non è mai stato così e nessun teorico marxista l’ha mai affermato. Ma nessuna data riesce spontaneamente, come “accidente”, solo perché c’era un certo sentire, una certa sensibilità. E anche il sentire e la sensibilità comuni non sono spontanei, ma sono il prodotto di un lavoro quotidiano, di mille stimoli, di mille battaglie. Le immagini di Gaza, per quanto atroci, non parlano “da sole”: sono i palestinesi e, in seconda battuta tutte e tutti noi ad averle “fatte parlare”.
Era in grado la CGIL di chiamare una data simile? No, perché non avrebbero parlato come i portuali di Genova che hanno fatto sollevare il paese con la loro serietà e concretezza costruite negli anni. Landini, che è uno che aveva evocato la “rivolta sociale” e poi ha mostrato a ripetizione tutta la sua inconsistenza, che attendibilità ha? Erano in grado di farlo il PD o i 5 stelle con l’ipocrisia del loro posizionamento, il loro complice silenzio durato anni e la loro connivenza? La data ha funzionato perché è stata chiamata e gestita da una certa impostazione sindacale e politica (USB, CUB, ADL, SGB, Potere al Popolo! e gli altri soggetti organizzatori) che aveva credibilità, esprimeva forza e faceva appello alla capacità di attivazione di ognuno attraverso la logica del blocco. Blocco che non è solo un’evocazione (diciamo questo senza svalutare il piano simbolico, l’immaginario conta e permette di collegare le lotte, come dimostra la anche il fatto che lo slogan sia stato ripreso dai movimenti francesi), ma una pratica concreta e replicabile che ha permesso a gruppi diversi di attivarsi contemporaneamente in contesti e con modalità differenti
Vorremmo che ogni giorno fosse come ieri. Vedere le piazze piene, i volti determinati e sorridenti, le bandiere della Palestina che sventolano. Ma per una giornata come ieri ne servono mille a combattere sui posti di lavoro e riconquistare palmo a palmo i nostri quartieri. Servono molti rifiuti, molto lavoro nascosto, molta disciplina.
Magari fosse nato ieri questo movimento. È nato in ogni comunicato tradotto e diffuso, in ogni volantino distribuito, in ogni assemblea sindacale, in ogni blocco dei porti al quale fino a pochissimo tempo fa nemmeno un giornale locale dedicava un trafiletto. In quell’accumulazione di forze e strumenti che si fa giorno dopo giorno e che, per questo, è così difficile da percepire. “Cogliere l’occasione!” significa anche e soprattutto prepararla e farsi trovare pronti quando arriva il momento.
Le mobilitazioni, gli scioperi, i conflitti, la politica in generale, per quanto sia suggestiva questa immagine, non sono piante spontanee, non sono come la gramigna che infesta tutto portata dal vento, sono piante che nascono da semi che sono stati interrati, curati, innaffiati e che, se trovano le giuste condizioni, sbocciano e fioriscono. Ricordiamocelo quando vediamo un orto rigoglioso, un campo di girasoli ondeggiare al vento e uno sciopero ben riuscito e una piazza gremita di gente: non sono cresciuti da soli e il nostro lavoro quotidiano conta.