Skip to content
Me-Ti

Il personale è (ancora) politico?

Me-Ti

Questo contributo nasce dall’esigenza, legata al dibattito interno alle organizzazioni, ai collettivi, ai movimenti e agli spazi di cui facciamo parte, di mettere in ordine i pensieri, di provare a individuare i limiti della nostra analisi e di precisare pratiche sempre più efficaci e trasformative. Abbiamo bisogno di trovare procedure e soluzioni che, pur non essendo sempre applicabili nello stesso identico modo, siano almeno condivise e capaci di farci da guida per affrontare le questioni legate ad atti discriminatori e offensivi, a violenze e molestie all’interno dei nostri gruppi. Soprattutto, abbiamo la necessità che tali procedure non vengano definite e assunte come qualcosa di esterno, che ci serve semplicemente a governare i problemi, ma che emergano come frutto di una maturazione interna, di un dibattito e di una presa di coscienza che ne faccia un precipitato di ciò che già sappiamo e pensiamo. Si tratta, insomma, di non lasciarle allo stato di procedure di emergenza, ma di renderle degli automatismi perché parte integrante di un percorso di miglioramento non solo dell’individuo singolo, ma anche e soprattutto dell’efficacia politica della nostra azione trasformativa collettiva. La centralità delle questioni di genere, infatti, per noi non è una “moda”, né pensiamo debba restare nello spazio angusto del dibattito accademico, tra persone “specializzate” o che militano negli spazi di movimento: è una postura generale, una scelta strategica complessiva.

***

1. Il personale è politico: cosa significa questa espressione e perché non dobbiamo rovesciarla

A dispetto del moltiplicarsi dell’attenzione sui temi legati al transfemminismo, ci sembra che, almeno nel nostro paese, una proposta teorico-politica chiara e concreta, così come una lettura intersezionale propriamente materialista del tema siano ancora da definire. Ci sembra infatti che troppo spesso, anche al nostro interno, si finisca per abbracciare una lettura distorta dell’intersezionalità, separando e non trovando il minimo comune denominatore delle forme di oppressione, cioè la messa a profitto della “differenza”. In tal modo, si arriva a utilizzare questa lettura e questo strumento semplicemente in chiave difensiva, se non addirittura disgregante, piuttosto che come pratica a partire dalla quale costruire alleanze e un fronte comune. Proprio per questo crediamo che si debba recuperare il potenziale rivoluzionario e trasformativo di tale visione e di tale pratica. Un potenziale, questo, che negli ultimi anni è stato espresso da tante organizzazioni e tanti movimenti in tutto il mondo, ma che troppo spesso viene “scippato” e contaminato da letture individualizzanti e meramente identitarie.

Abbiamo scelto di partire da questa espressione: il personale è politico. Perché? Perché fin dalla seconda metà del secolo scorso essa individua un problema, tutt’altro che risolto, nei movimenti e non solo; anzi, ne individua più d’uno. 

Con lo slogan il personale è politico si esprime, in prima istanza, il bisogno di leggere ogni fenomeno – anche le questioni relazionali, apparentemente private – come frutto di dinamiche sociali, che non siano solo le regole scritte e non scritte che orientano la società di appartenenza, ma che includano anche i rapporti di forza e di potere che la innervano. lI personale è politico significa quindi innanzitutto questo: nulla è estraneo alla sfera del politico. Niente si sottrae a quelle contraddizioni e forme di oppressione che, se siamo parte di un progetto trasformativo, proviamo quotidianamente a sciogliere e ribaltare. 

In secondo luogo, l’espressione deriva da una necessità ben precisa: quella di mettere a fuoco e “sotto ai riflettori” questioni sovrastrutturali – che riguardano la questione di genere, i rapporti tra le culture/etnie, le forme di discriminazione simbolica e materiale – rimaste in ombra e che non sono immediatamente includibili, ravvisabili o analizzabili attraverso la lente della contraddizione Capitale/Lavoro. Ovviamente, questo non significa che le siano estranee, ma che semplicemente non si esauriscono in essa, e che, pur partendo, in varia forma e attraverso processi storici e sociali articolati, da lì assumono forme diverse, nelle quali si stratificano e sedimentano, assumendo, agli occhi di chi osserva, una certa autonomia. 

Quando i movimenti femministi affermavano che “il personale è politico”, lo facevano anche e soprattutto per rendere visibile qualcosa che altrimenti non sarebbe stato possibile vedere. Questa invisibilità o, meglio, questa invisibilizzazione era ed è il risultato delle condizioni materiali e della “marginalità” (bell hooks) di alcuni soggetti rispetto al potere. La casa, il ghetto, il carcere sono i luoghi-simbolo di questa marginalizzazione. Le persone sfruttate, povere, malate, etc. non si vedono. L’opera delle femministe, dagli anni ‘50 in poi, è stata quella di uscire esse stesse e far uscire i soggetti marginalizzati dalla domesticità per riprendersi lo spazio delle decisioni, lo spazio pubblico. Certo, non siamo più negli anni ‘50 e i tempi sono cambiati. Ciò che però non è cambiato, in una società liberale capitalista, è il fatto che i problemi sociali vengono ancora confinati nella sfera privata.

2. Una gerarchia tra le lotte?

Per comprendere l’attuale dibattito e le diverse sensibilità sul tema è necessario partire da un “errore”; anzi, da due.

Il tema dei rapporti di genere è emerso con forza fin dalla metà degli anni ‘70 e, in realtà, ha attraversato da sempre, apertamente o in modo più carsico, i movimenti socialisti/anticapitalisti. Tuttavia, fino agli  anni ‘60, è sicuramente possibile ravvisare il prevalere politico e teorico della dimensione strutturale (la contraddizione Capitale/Lavoro di cui sopra). Questo ha portato a una certa trascuratezza, se non addirittura a una rimozione di tali questioni dal dibattito e dall’attività pratica delle organizzazioni comuniste più istituzionali e “ortodosse” (con non poche eccezioni, certo) e questo limite è ancora ravvisabile oggi nelle correnti più “rossobrune”. 

Non è un caso che da sempre la nostra ispirazione siano stati movimenti come il Black Panther Party che, senza mai trascurare l’approccio materialistico, hanno sollevato la questione della “razza” e del genere, sottolineandone la centralità nella vita concreta e quotidiana dei soggetti ai quali si rivolgevano e che avevano come riferimento (per approfondire questo approccio ci permettiamo di rimandare all’apparato critico curato dalla redazione di progetto Me-Ti di Ne*ri con le pistole di Robert F. Williams).

Scrive Fanon che in colonia la struttura e la sovrastruttura sono intrecciate tanto che, per analizzarle, è necessario, “estendere” le categorie del marxismo. Prima di lui, già Mao e, in un certo senso, lo stesso Lenin avevano prodotto rotture teoriche e politiche nelle quali il ruolo di soggetti “anomali” e “imprevisti” (considerati non classicamente “proletari”) era stato centrale. Sia l’uno che l’altro avevano così valorizzato aspetti non prettamente economici (si pensi agli scritti di Lenin sull’autodeterminazione dei popoli), facendo, come scrisse Gramsci, una rivoluzione “contro il Capitale” – eterodossa, almeno per chi leggeva meccanicamente la riflessione marxiana.

Perché la prendiamo così alla lontana? Per dire che l’eredità del marxismo è ricca e che solo le organizzazioni e i soggetti militanti più ottusi, nella storia di questo movimento così variegato, hanno separato i due piani di lotta gerarchizzandoli, o addirittura provando a cancellare quello sovrastrutturale. Se esiste una gerarchia sul piano logico/funzionale, non è detto che questa “priorità” riguardi anche il piano “cronologico” né la loro urgenza. Alcune battaglie possono precederne altre, altre si possono tenere insieme e certamente, se ben condotte, si rafforzano reciprocamente. 

Questa ottusità c’è stata, soprattutto in tanti Partiti Comunisti europei, e questo ha portato a una separazione tra le questioni per cui molti movimenti li hanno di fatto disconosciuti. Ancora oggi paghiamo il prezzo di questa lettura miope e meccanicistica del marxismo in due sensi: 

  • Da un lato, gli eredi rossobruni (più o meno mascherati), che perseverano nell’errore, credendo che gli interessi della classe e il miglioramento delle sue condizioni di vita siano esclusivamente legati all’incremento salariale, arrivando (oggi come ieri) a contrapporre gli interessi di una parte della classe a quelli di un’altra parte. Ci riferiamo, ad esempio, ai risvolti razzisti di certa “sinistra” anti-immigrazione e a un certo conservatorismo nei confronti dei ruoli interni alla dimensione relazionale/familiare o delle lotte legate all’identità di genere.
  • Dall’altro, la reazione di chi, leggendo il marxismo come un blocco unico, ha assunto un’impostazione che – appunto reattivamente, dunque esageratamente, e in maniera altrettanto miope – sconfessa e separa, al rovescio, ogni prospettiva e lettura materialistica e di classe da quella legata alle altre forme di oppressione. Al netto delle dichiarazioni, che possono andare anche in senso differente, le pratiche e l’impostazione di chi ha questa visione tendono ad occuparsi dei processi di decostruzione culturale, così come della destrutturazione del concetto illuministico di universale. Nel tentativo di superare la visione del soggetto egemone come bianco, maschio, cis, etc.; di un certo tipo di produzione artistico/teorica e delle rappresentazioni eurocentriche, simili posizioni sopravvalutano il ruolo della coscienza, utilizzando spesso erroneamente questo termine come equivalente di “consapevolezza”. Propongono, più o meno esplicitamente, di risolvere ogni contraddizione sul piano dello spazio della rappresentazione – anche quella di classe, quando se ne ricordano. Lo spazio economico e i rapporti di forza materiali vengono ridotti a una svista, a poca accuratezza, poco studio, poca consapevolezza, cioè a un effetto o, sarebbe meglio dire in questo caso, a un difetto della “coscienza”. Questo approccio culturalista è doppiamente pericoloso. Lo è perché ciò di cui parla non è il necessario intervento di egemonia culturale sul mondo, proprio di ogni collettività trasformatrice. Ciò che invece presuppone è un’inversione dei rapporti di priorità logica e materiale, mutandosi in una forma di essenzialismo per il quale la funzione stessa della struttura economica dipenderebbe dalle rappresentazioni culturali, di fatto tralasciando la trasformazione di entrambi i campi e, paradossalmente, slegandoli. Non si va dunque fino in fondo nel comprendere le ragioni materiali e la funzione (spesso parzialmente superata o addirittura divenuta superflua nelle logiche attuali del capitale; su questo si veda più avanti il tema della sussunzione delle lotte) del prevalere di tali soggetti/rappresentazioni (su questo, molti anni fa, avevamo scritto qui).

Entrambe le “fazioni”, ci sembra, mancano di complessità e capacità di leggere la realtà criticamente.

In particolare, negli ultimi venti/trent’anni abbiamo assistito, per un verso, all’arretramento delle letture di classe, per un altro – e questo è ovviamente un bene – a un sempre più diffuso dibattito sui temi riguardanti altre forme di oppressione. Dal femminismo della terza ondata in poi abbiamo visto una crescente diffusione dei temi di genere (ma anche del dibattito su orientamento/identità etc.), forse mai registrata prima. Il problema è che questo dibattito non sempre ha integrato al suo interno la lettura di classe; spesso l’ha addirittura, de facto se non de iure, contrastata, quando non ha finito per cancellarla. Proprio a questo proposito vorremmo fare un po’ d’ordine, perché si tratta di un tema molto delicato. 

3. La privatizzazione del politico

Partiamo dalla fine. Quella a cui assistiamo oggi è una vera e propria inversione dello slogan dal quale abbiamo preso le mosse: il personale è politico. Il senso che vi viene associato non riguarda più la ricerca di una radice (e quindi di una soluzione) sociale e collettiva alle questioni legate ai rapporti interindividuali, ma una vera e propria privatizzazione del politico (invece che politicizzazione del privato, come voleva l’impostazione iniziale). 

Il paradosso che stiamo vivendo è che la perdita di centralità dei temi del lavoro e dello sfruttamento economico ha dato solo apparentemente maggior spazio alla dimensione sovrastrutturale, quella delle cosiddette “contraddizioni secondarie”. A ben vedere, invece, ha finito per impoverirla.

Relegata al solo spazio culturale, la dimensione sovrastrutturale diviene nulla più che battaglia (di stampo liberale) di idee (quando non addirittura battaglia sulla “validità” delle sensazioni). Pur sembrando dilagante, almeno rispetto al passato, è in realtà costretta in uno spazio molto angusto. Una riflessione sulla riproduzione sociale, cioè sulle “tensioni intorno alla cura” in senso ampio, che sia slegata dall’analisi dei processi di accumulazione e valorizzazione, del modo di produzione e delle sue forme attuali, finisce per mistificare e nascondere proprio la centralità del lavoro di riproduzione. Questa, infatti, emerge solo nel momento in cui la interpretiamo non come l’altro rispetto alla produzione, ma come l’altra faccia della produzione stessa e che proprio in quanto tale la rende possibile nella forma in cui la conosciamo. La critica transfemminista, che opera questo tipo di lettura, finisce – più o meno consapevolmente – per rafforzare proprio quel disconoscimento del legame profondo e dell’implicazione fra le due sfere, da sempre cavallo di battaglia del discorso borghese su questi temi.

Se il dibattito sulle questioni di genere e sulle questioni legate ai processi di razzializzazione si è certamente diffuso (cosa di cui non si può che gioire), non si può però trascurare una certa tendenza alla sua privatizzazione. In generale, questo coincide con il suo schiacciamento sulle identity politics che, nei casi meno gravi, prende forme involontarie di depoliticizzazione di tali questioni. In quelli peggiori, invece, le riduce a espressione della pura sussunzione capitalistica, con cui le nostre battaglie e le nostre parole d’ordine vengono messe a profitto e valorizzate sul mercato (pinkwashing, greenwashing, forme varie di tokenism). Assumendo, più o meno inconsapevolmente, una prospettiva individualistica e interrelazionale, si è smarrita la spinta iniziale che premeva dietro queste rivendicazioni, cioè la necessità non aggirabile di individuare le radici politiche dell’oppressione – dunque non solo culturali o simboliche – e di trovare soluzioni realmente trasformative sia verso l’esterno, che nella trasformazione delle dinamiche e nell’individuazione di regole (chiare) interne a movimenti e collettivi.

Come sempre, teoria e prassi non sono disgiunte e si condizionano a vicenda. Sempre più negli ultimi due decenni abbiamo visto svilupparsi movimenti fluidi e poco organizzati (nel senso letterale del termine) e che raramente hanno messo il proprio discorso, spesso prodotto da singoli “intellettuali”, alla prova del dibattito collettivo e, soprattutto, di pratiche concrete, rendendolo sempre più astratto e individualista. 

A fronte di ciò, non si può proseguire un lavoro politico trasformativo senza l’urgenza

  1. percepita, di una connessione tra questione di classe (che sembra messa da parte fin quasi a scomparire, nonostante il peggioramento oggettivo delle condizioni di lavoro in Occidente) e questioni di genere/legate ai processi di razzializzazione etc.
  1. e concreta, di uno sviluppo in termini di prassi del dibattito su tali questioni 

2a) sia dal punto di vista delle regole (anche là dove le organizzazioni sono residuali e disarticolate e quindi il problema sembra non porsi); 

2b) che da quello delle pratiche di lotta (se una questione viene posta sul piano interpersonale, è su quel piano che finirà per giocarsi la partita, trascurando le proposte e le pratiche di trasformazione esterna).

Senza una simile urgenza, il piano del discorso non può che rimanere prevalentemente astratto, individuale, “privato”.

Qui, dall’interno di una prospettiva che si vuole transfemminista e di classe, il nostro tentativo è quello di individuare le radici storiche/teoriche di questo slittamento verso prospettive interclassiste e meramente identitarie, in modo da poter ripensare pratiche e strategie. Schematicamente (con tutti i limiti che un tipo di schematizzazione del genere può avere), si può dire che la deformazione/contaminazione dello slogan il personale è politico deriva da diversi fattori, di vario peso e importanza.

4. Intrasformabilità del mondo e trasformazione del sé

In primo luogo, dobbiamo parlare dell’introiezione dell’idea di una sostanziale intrasformabilità del mondo. L’idea che una prospettiva di classe sia tramontata e con essa la speranza di prevalere sul piano della contraddizione primaria Capitale/Lavoro ha portato a un progressivo spostarsi su “lotte rifugio”: cioè su questioni che apparentemente (!) sembrano più facilmente affrontabili e risolvibili. Si tratta di un’illusione: solo se riteniamo che siano eminentemente “culturali” possiamo pensare che razzismo, sessismo, questione ecologica, etc. siano più facili da affrontare, a partire dall’educazione delle masse. Invece, quando comprendiamo come esse sono legate a doppio filo con l’insieme del meccanismo del “capitalismo cannibale” (N. Fraser), che divora e rifunzionalizza tutto per metterlo a profitto, capiamo anche che queste battaglie non solo non sono più semplici da vincere, ma sono inseparabili dal resto. Mentre il mondo “fuori” sembra sfuggirci e ci appare come inattaccabile nei suoi meccanismi di oppressione e sfruttamento, tutto il nostro impegno trasformativo sembra riversarsi verso l’interno. Investiamo sulla trasformazione (sacrosanta, ma non sufficiente) di noi stessi e noi stesse, dei nostri modi di vita e di consumo (sempre più “etici”), delle nostre relazioni, della nostra autopercezione. Nel discorso politico si passa, come scrive Giglioli1, dal “Che fare?” al “Chi sono?, così come “nel discorso pubblico «vittima» comincia a sostituire altri termini, come ad esempio «oppressi»”2. Se il fuori è perso, allora si prova a ricostruire “dentro”, a livello personale o nei nostri spazi, un equilibrio perfetto, o, peggio ancora, si finisce per presumere che sia già stato in qualche modo raggiunto (sono due facce della stessa medaglia).

Non si tratta di sminuire questo tipo di trasformazioni e di interventi, ma di relativizzarli e “decentrarli”. Il centro era e resta il fuori da aggredire, quale che sia il punto dal quale si sceglie di partire (in primis noi e gli spazi politici che frequentiamo), cercando di aggirare le autogiustificazioni, da un lato, e i tentativi moralistici (su cui torneremo più avanti), dall’altro, mantenendo al centro il politico, inteso come possibilità di trasformazione, come ricerca dell’efficacia dell’azione, così come di un piano collettivo sempre più ampio (cioè sempre meno concentrato sull’individuo).

5. Il pericolo della deriva moralistica

Un fattore non secondario, che determina lo slittamento sul piano meramente identitario, riguarda la penetrazione nella cultura e nelle pratiche dei movimenti delle logiche e delle letture liberali della realtà. La sussunzione all’interno delle dinamiche capitalistiche di alcune battaglie per l’uguaglianza e l’emancipazione di genere ha portato, come conseguenza diretta, alla produzione di forme attenuate di tali battaglie, rendendole così compatibili con il modo di produzione dominante; il che le fa apparire immediatamente spendibili e sostanzialmente abbracciabili da chiunque (e per questo innocue). 

Le sfere di movimento non sono rimaste intoccate da tale sussunzione. Proprio perché talvolta si utilizzano – rimasticandoli – linguaggi, simboli e slogan, essa ha finito per penetrare nel nostro immaginario e nel nostro modo di pensare. Questa contaminazione non deve sorprenderci. La lotta di classe, proprio come la battaglia ideologica che ne è a corredo, non ci fa mai stare “fermi”: si può star vincendo o perdendo; e in questo momento di arretramento la nostra debolezza si manifesta anche nell’essere permeabili a questa penetrazione.

D’altronde, sono tempi di individualizzazione e individualismo dilaganti. Non solo siamo e ci sentiamo sempre in concorrenza con chiunque, ma abbiamo anche dato, proprio per questa ragione, una centralità enorme alla nostra esperienza, alla nostra costruzione identitaria e alla nostra sensibilità personale, perdendo l’abitudine a pensarci come parte di un collettivo e di una classe. Sarebbe quindi ben strano che proprio su temi così complessi e così strettamente collegati alla nostra esperienza di vita e alla nostra autopercezione fosse un’altra lettura a prevalere. Dobbiamo contrastare le idee dominanti che in forme anche molto subdole vengono da “fuori” e ricostruire, a partire dall’“interno”, un pensiero e una modalità d’azione trasformativa, collettiva e materiale: “i fatti ci dimostrano (…) che non basta includere i soggetti esclusi in un sistema di produzione (o di consumo). La possibilità che questi si emancipano dipende dal sistema stesso a cui accedono. (…) Un mondo più femminilizzato non è garanzia di equità (…). La maggiore inclusività di un sistema basato sullo sfruttamento ha amplificato le difficoltà a individuare la sede del potere e ha portato un nuovo conflitto quello di genere all’interno del conflitto di classe su cui avevamo fondato la nostra concezione del capitalismo, facendo esplodere la contesa in migliaia di soggettività slegate tra loro, ognuna con esigenze differenti e giustamente in cerca di riconoscimento. L’astuzia del Capitale risiede proprio nel saper cooptare quelle che sono sacrosante e innate necessità emancipative dei soggetti subordinati”3.

Un altro aspetto determinante nella deriva identitaria ha a che fare con la crisi dei movimenti e il prevalere dell’approccio moral(istico) sul politico. La crisi delle organizzazioni politiche e, conseguentemente, della visione collettiva della storia, così come delle dinamiche e delle forze che la governano, ha portato a una perdita di centralità della questione dell’efficacia (torniamo qui al tema della trasformabilità/intrasformabilità del mondo affrontato sopra). A prevalere è una sorta di primato della moralità (ma forse sarebbe meglio dire “moralismo”, perché moralità è una parola troppo preziosa per sprecarla così) e un malinteso senso di purezza: non si bada a ciò che serve, ma a ciò che appare più incontaminato (o, in casi ancora peggiori, a ciò che può servire a darci un “posizionamento”, una riconoscibilità, una presunta autorevolezza in quanto migliori esempi di una certa categoria incontaminata).

La lotta per la trasformazione non si svolge più nel fango, con “ogni mezzo necessario”, alla ricerca della tattica più efficace per ribaltare i rapporti di forza, ma in uno spazio vuoto e asettico in cui vittoria e sconfitta si sovrappongono, misurandosi solo a partire dal metro della maggior purezza individuale o della capacità di costruire uno “spazio sicuro” che però troppo spesso diviene semplicemente una “casa sull’albero”, una simulazione e non un’anticipazione della vita reale “fuori”. Si tratta solo di proiezioni del nostro (pur legittimo) desiderio di un mondo privo di conflitti e contraddizioni che non hanno però un’effettiva consistenza e che, al limite, sono tutte da costruire. Non possiamo semplicemente replicarle in scala nei nostri spazi, a meno di non voler produrne delle caricature grottesche, caratterizzate da ripiegamenti individualistici e da nuove forme di esclusione. “C’è differenza tra essere sicuri che nulla di non calcolato e di spiacevole possa accadere ed essere sicuri che qualsiasi cosa avvenga sarà tenuta nel giusto conto e non la affronteremo in solitudine”4.

Questo non vuol dire in alcun modo che i nostri spazi debbano conformarsi allo schifo che c’è fuori, che debbano seguire le stesse “leggi della giungla”, oppressive e discriminatorie, ma che non si può immaginare uno spazio che sia assolutamente asettico e incontaminato – non solo dal fuori – ma dalle dinamiche fisiologicamente dolorose che possono esserci nelle relazioni interpersonali. Non possiamo eliminare del tutto il dolore. Dobbiamo quindi  “imparare a riconoscere la differenza fra una situazione che è genuinamente non sicura e una che è soltanto scomoda, (…) fra sensazioni intollerabili e condizioni intollerabili”5.

Sappiamo che queste affermazioni possono risultare molto indigeste. Non vogliono ovviamente dire che dobbiamo tenerci quello che c’è, ma che dobbiamo lottare per la trasformazione a tutti i livelli, con la consapevolezza che si tratta di un percorso lungo e accidentato, tutto da definire e ridisegnare. Un percorso che non ci libererà in toto dalla sofferenza, che come tale è qualcosa di connaturato all’essere umano e al suo vivere con i propri simili, ma, auspicabilmente, dall’ingiustizia e dallo sfruttamento, cioè dal modo attuale in cui viviamo con i nostri simili.

Prendiamo, ad esempio, il dibattito sui concetti di consenso e di privilegio. Anche se apparentemente c’entrano poco l’uno con l’altro, finiscono per essere legati dalla stessa logica. Spesso infatti arrivano ad avvitarsi su una dimensione psicologica, nel senso deteriore del termine, e moralistica, più che su una lettura materiale delle diverse condizioni dalle quali partiamo. Nel caso del consenso, si è enfatizzato esclusivamente la comunicazione del proprio desiderio/intenzione (passando, più che giustamente, dal “no significa no” al “solo sì significa sì”), finendo però troppo spesso per trascurare le dinamiche materiali che possono determinare l’effettiva possibilità di esprimere tale consenso: “il fatto che le donne obbediscono agli uomini e agiscono in conformità al dominio maschile non può essere considerato una forma di consenso, se con questo termine si intende l’espressione di una volontà autonoma. (…) Per poter usare il termine stesso di consenso è necessario un’uguaglianza minimale fra uomini e donne. Per questo motivo il problema del consenso delle donne può veramente essere posto solo nella società in cui esse sono formalmente uguali agli uomini”6.

Nel caso del privilegio, invece, il punto centrale sembra riguardare la “consapevolezza” intesa come capacità di decostruirsi o essere decostruiti/e (tralasciando troppo spesso, anche in questo contesto, ogni possibilità materiale e ogni differenza di “capitale culturale e sociale” di partenza). Questa decostruzione coincide con una sorta di espiazione: devo dichiarare di essere privilegiato o privilegiata, più spesso e ad alta voce possibile, invece di provare a comprendere in che modo mettere il mio eventuale privilegio al servizio di una trasformazione sociale complessiva, al servizio della classe. Ciò non significa non mantenere la guardia alta sugli abusi, sulle violenze, sulle possibili invasioni di campo, sulla tendenza volontaria o involontaria a prendere più spazio di quanto non ce ne spetterebbe in un dibattito, parlando e decidendo per altri individui (non a caso prima di scrivere questo testo, abbiamo scelto di parlare di questi temi prima fra donne, e sappiamo e pretenderemo che nel dibattito misto e comune la nostra voce abbia su queste questioni un peso diverso). Non si tratta di fare a gara su come le nostre esperienze di vita e i gradi dell’oppressione che abbiamo patito ci qualifichino più o meno di altre persone alla parola. Si tratta piuttosto di comprendere qual è il nostro ruolo al fine di impadronirci di quanti più strumenti possibile, a partire dalle condizioni che la fortuna o la sfortuna ci hanno dato, per metterli al servizio della lotta comune.

L’eccesso di psicologizzazione, che spesso si cela dietro alle discussioni sul consenso/privilegio, è un rischio che, pur nella continua attenzione per la salute mentale nostra e altrui, dobbiamo cercare di non correre. Con la ricerca di spiegazioni sotterranee rischiamo di collaborare alla mistificazione di quelle verità semplici ed evidenti, che hanno a che fare con i rapporti di forza immediatamente visibili sotto i nostri occhi. 

Allo stesso modo, la presunta politicizzazione della “rabbia”, altra espressione che ritroviamo spesso, è sovente gravata da questa lettura individuale/individualizzante e, in senso deteriore, psicologica. Dire che la rabbia è politica non significa che ogni rabbia lo sia di per sé e che dunque sia, in quanto tale, da coltivare, anzi, esistono forme di rabbia paralizzanti, peggio ancora strumentalizzabili (non è rabbia quella che ci fa odiare chi sta peggio di noi pensando che ci stia togliendo qualcosa?). La politicizzazione della rabbia/violenza riguarda la capacità di individuarne le radici sociali – ed in questo senso si può leggerla come legittima – ma è necessario, per considerarla politica, anche orientarla verso scopi collettivi e progressivi (per la classe).

6. Espunzione del conflitto e paradigma vittimario

Come sottolinea Sarah Schulman “invocare il linguaggio dell’abuso è un’elusione della responsabilità, esattamente come parlare per metafore. Come quando la gente dice: “mi sento come se fossi stata violentata” per dire che è sconvolta. (…) a volte insistiamo così tanto nel nostro diritto di sopravvalutare i danni che facciamo cose che non rispondono alle dimensioni effettive del conflitto”7. Queste parole apparentemente durissime hanno l’obiettivo di sottolineare la differenza tra uno scontro di potere, anche parzialmente asimmetrico (dal momento che un bilanciamento assoluto e persistente nelle relazioni interpersonali non è mai riscontrabile), e un’imposizione di potere, laddove nel primo caso parliamo di un conflitto e nel secondo un abuso. “Una persona può sentirsi arrabbiata, frustrata, sconvolta. Ma questo non significa che subisca un abuso”8; “validare il vissuto, naturalmente, resta sempre fondamentale: il fatto che una persona si sia sentita violata è incontestabile come qualsiasi altra sensazione riferita a sé stessi; ma questo non vuol dire validare automaticamente la sua lettura delle cause del danno e la sua attribuzione delle responsabilità”9. La non differenziazione fra questi due piani, comprensibile e lecita per la persona direttamente interessata, che ne è coinvolta e che potrebbe sentirsi impaurita e confusa, non è invece accettabile su un piano più generale e che si vuole, per quanto possibile, oggettivo.

In una società, che – pur essendo imperniata sulla violenza e sullo sfruttamento imposti dal modo di produzione capitalistico – tenta in ogni momento di espungere il conflitto e di criminalizzarlo, è sempre dietro l’angolo la tentazione di trasformare il conflitto in abuso. Tentazione, questa, che comporta almeno tre problematiche:

  1. L’invisibilizzazione delle dinamiche fra le classi o interne alla classe stessa sotto il velo della polarizzazione tra vittima e carnefice. In questo caso si tiene spesso da conto soltanto una fra le forme di contraddizione nella quale i soggetti coinvolti sono avviluppati; ad esempio, quella di genere e non tutte le altre, cosa che in una lettura intersezionale della realtà dovrebbe essere escluso. Il capitale culturale, sociale, la rete di relazioni, ma anche banalmente il capitale economico vengono del tutto cancellati in un rapporto di dominio letto soltanto attraverso il prisma del genere oppure, in altri casi, della “razza”. Ciò impedisce una reale solidarietà e l’alleanza tra i nostri, perché l’uomo diventa nemico della donna, il bianco povero del nero e viceversa. Per quanto non sia privo di problematicità, senza il fattore ricompositivo della classe, scompare il conflitto. Tutto diviene un possibile e potenziale abuso e, di conseguenza, scompare anche la possibilità di individuare un nemico comune.
  1. La perdita di agency/capacità d’azione da parte della vittima definita o autodefinita tale che tende a soggettivarsi, cioè a costruire la propria autorappresentazione e identità fissa, a partire da questa definizione, rassegnandosi di fatto alla perdita di potere e alla non trasformabilità della situazione circostante. Per quanto possa sembrare cinico e terribile, e i potenti lo sanno bene, “essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima, immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio” (Giglioli, cit.). È possibile non rientrare in questa logica vittimaria che prescinde da ogni rapporto di forza (è quello che nel macro fa Israele e i suoi difensori nella propria autorappresentazione, vedi qui) scampando però il pericolo, ancor più grave, di criminalizzare chi è stato oggetto di violenza e di abuso? È questa la nostra sfida, la via strettissima che ci tocca percorrere se non vogliamo correre il rischio, al netto delle parole incendiarie che talvolta pronunciamo, di appiattirci su questo paradigma: “Se vogliamo creare un mondo in cui conflitto e trauma non sono al centro della nostra esistenza collettiva, dobbiamo esercitarci in qualcosa di nuovo, porci nuove domande”10.
  1. Vogliamo sottolinearlo: la nostra non è una constatazione umana, né esistenziale, ma puramente politica. Mentre i potenti che si autorappresentano come vittime stanno compiendo una sottile strategia egemonica e di costruzione di consenso, che legittima ogni loro crimine, quando ad appiattirsi sulla dimensione vittimaria è il soggetto subalterno, ciò che se ne ricava è soltanto passivizzazione, manifestazione puramente esteriore e testimoniale del proprio “disagio”. “Il problema non è solo come rispondere alle denunce di atti di violenza o ai conflitti che rischiano di sfociare in violenza nei nostri movimenti (…) dobbiamo soprattutto chiederci perché, sia all’interno che all’esterno, sembra sia scomparsa la possibilità di prendere parola, di prendere spazio, di rivendicare potere a partire da una condizione marginalizzata senza ricorrere al meccanismo vittimario. (…) Prendere parola come vittima significa professare la propria impotenza, e solo a partire da quella acquisire qualcosa di simile a un potere. (…) probabilmente il discorso vittimario può essere usato strategicamente, ma, senza una consapevolezza critica sulla portata delle conseguenze generali del suo funzionamento, saranno sempre molto più numerosi i casi in cui è il discorso vittimario a usare noi”11.

7. Contro il punitivismo: chi è il nostro nemico?

La “tentazione della punizione”, dell’assecondare una logica puramente repressiva (che poi è quella in cui abbiamo affrontato il nostro processo di crescita e di socializzazione) è una delle conseguenze dirette di questa rappresentazione ossificata e interclassista vittima/carnefice. Che spazio c’è infatti per una giustizia realmente trasformativa nel campo polarizzato dell’inimicizia radicale? Almeno nei nostri ambiti dovremmo ricordare che a dover essere sanzionato è sempre l’atto, non la persona – che non si riduce mai ad esso. Dovremmo poi chiederci su quali soggetti, in carne e ossa, si applicano queste “sanzioni”. Non di rado, infatti, sia pur involontariamente, finiscono per essere sanzionati soggetti che portano sulle spalle altre “fragilità” e su cui gravano altre linee di oppressione. Non “il capo”, non il bianco, non “l’amico di sempre”, ma chi per appartenenza sociale, economica, in virtù dei processi di razzializzazione, è meno provvisto di risorse e meno avvertito sulle possibili risposte agli attacchi (pur legittimi). Anche il “carnefice” è situato. Se non siamo tenute a passare sopra ai suoi errori e alle sue violenze, non possiamo per questo nemmeno applicare una giustizia astratta su un soggetto concreto: questo è quello che fa lo Stato, non noi. Un’intersezionalità materialista – espressione che dovrebbe essere tautologica, ma che troppo spesso non lo è – serve a individuare le forme di oppressione a 360° e soprattutto tutte le possibili alleanze, anche quando sembrano difficili, se non impossibili.

Rifiutare il paradigma vittimario, da un lato, e punitivo, dall’altro, non significa solo provare ad affrancarsi dalle logiche che ci vengono proposte al fine di separarci e contrapporci, ma anche provare a tradurre nella pratica questa prospettiva materialista, leggendo realmente l’oppressione di genere come sistemica e non (soltanto) come dinamica che ha a che fare con le relazioni tra singole persone. Nella gran parte di noi albergano sentimenti come il desiderio di vendetta, che sembra la strada più breve e diritta per avere giustizia. Anche la legittima richiesta di veder riconosciuta la propria sofferenza, in qualità di persone che hanno subito offesa, rischia di identificarsi con questa istanza punitiva e repressiva. Il tentativo ci sembra invece che debba essere quello di spostare il più possibile l’asse di queste richieste sul piano collettivo e trasformativo. Se punire e allontanare divengono l’unico obiettivo e l’unica via d’uscita, finiamo per dimenticare che nella stessa lotta di classe e trasformazione in chiave comunista il punto non è infliggere sofferenza al padrone, ma eliminarne di fatto l’esistenza non fisica, individuale, ma come categoria sociale ed economica. Nella concezione deformata in cui viviamo, “condannare gli individui è sempre molto più importante che prestare attenzione alle strutture interpersonali”12. Invece “occorre tenere presente che lo scopo della nostra lotta non è ottenere di essere riconosciuti dalla borghesia, e neppure distruggere la borghesia. A dover essere distrutta è la struttura di classe. (…) la nostra lotta deve mirare alla costruzione di un mondo nuovo e sorprendente, non alla difesa di identità plasmate e distorte dal capitale (…) Occorre creare le condizioni per l’esistenza di uno spazio di disaccordo senza timori di esclusioni e scomuniche (…). L’obiettivo non è quello di essere “attivisti”, ma di aiutare la classe operaia ad attivarsi e trasformarsi”13.

***

Non c’è una conclusione definitiva a chiudere questo testo. Mai come riguardo a questa questione occorre “camminare domandando”. Se all’interno dei gruppi/organizzazioni/collettivi di cui facciamo parte questo abbozzo di riflessione vuole essere l’occasione per sperimentare nuove pratiche e mettere a punto protocolli utili a prevenire atti di violenza e sopraffazione al nostro interno, verso l’esterno il nostro desiderio e intento è quello di aprire un dibattito, anche forte, ma che ci veda far fronte comune per un obiettivo condiviso: non solo la costruzione di una comunità “sana” all’interno di una società “malata”, ma la trasformazione del “mondo fuori”, la distruzione dei vincoli, materiali e simbolici, che non ci permettono di vivere in pace.

Ri-politicizzare e ri-pubblicizzare la sfera del privato significa per noi, in primo luogo, imparare a sfuggire alla falsa dicotomia tra diritti sociali e diritti civili, ma anche a sottrarci alla spinta individualizzante e identitaria che costantemente ci tenta anche all’interno dei nostri spazi, delle nostre riflessioni e delle nostre pratiche. In sintesi, la sfida che abbiamo di fronte è quella di ricomporre ciò che, pur nella differenza e nella pluralità, è già uno: il fronte delle persone oppresse e sfruttate.


  1. D. Giglioli, Critica della vittima, nottetempo, Milano 2014. ↩︎
  2. T. Pitch, Il malinteso della vittima, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2022, p. 31. ↩︎
  3. E. Cuter, Ripartire dal desiderio, Minimum Fax, Roma 2020, pp. 90-91. ↩︎
  4. Laboratorio Smaschieramenti, Ci siamo cancellate? Note su giustizia trasformativa e soggettivazione vittimario nel contesto italiano, in adrienne maree brown, Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel culture, Meltemi, Milano 2024, p. 136. ↩︎
  5. Malkia Devich Cyril, Postfazione a adrienne maree brown, cit., p. 70. ↩︎
  6. M. Garcia, Di che cosa parliamo quando parliamo di consenso, Einaudi, Torino 2022, pp. 164, 166-167. ↩︎
  7. Sarah Schulman, Il conflitto non è abuso. Esagerazione del danno, responsabilità collettiva e dovere di riparazione, Minimum fax, Roma 2022, p. 66. ↩︎
  8. Ivi, p. 68. ↩︎
  9. Laboratorio Smaschieramenti, Ci siamo cancellate?, cit., p. 104. ↩︎
  10. adrienne maree brown, cit., p. 65; su questo tema consigliamo anche i testi di Jasmine Nair che potete trovare tradotti su www.progettometi.org: La tua storia traumatica ti ucciderà: trauma e capitalismo e La politica dello storytelling. ↩︎
  11. Laboratorio Smaschieramenti, Ci siamo cancellate?, cit., pp. 117, 133-144. ↩︎
  12. M. Fisher, Non siamo qui per intrattenervi. Scritti sulla letteratura, interviste e riflessioni, Minimum Fax, Roma 2023, p. 315. ↩︎
  13. Ivi., pp. 320-321. ↩︎

Newsletter

Segui gli aggiornamenti sul progetto Me-Ti!

Iscriviti