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Ramy Elgaml e l’alleanza possibile. A partire da “Maranza di tutto il mondo unitevi!”

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La morte del diciannovenne Ramy Elgaml e il – fin troppo scarso – dibattito politico che l’ha circondata si è polarizzato intorno a due macroinsiemi di questioni. A destra quelle della “sicurezza”, della “libertà d’azione” per le forze dell’ordine e dell’attacco alla nostra “identità” nazionale che sarebbe costituito dalle cosiddette seconde generazioni. A sinistra (più o meno radicale) sulla profilazione razziale, sull’abbandono delle periferie e, soprattutto, sull’impunità delle forze dell’ordine. Non ci soffermeremo, per ovvie ragioni, sul primo insieme di questioni, che a partire dal concetto di “decoro” contribuisce alla costruzione di un’idea di sicurezza puramente repressiva e sostanzialmente razzista, alimentando la percezione di un pericolo che è sempre “paura dell’altro” e mai riflessione sui presupposti materiali che determinano l’insicurezza sociale – mancanza di sostegni, garanzie, prospettive per le parti della popolazione meno privilegiate. Vorremmo invece allargare e approfondire il secondo insieme di discorsi, provando a dare centralità a quella più trascurata ma anche forse più strategica: la difficoltà di costruire solidarietà, alleanza di classe all’interno dei settori popolari – razzializzati e non. 

Per farlo ci può dare una mano un testo importante, pubblicato in Francia nel 2023 e in Italia da pochi mesi da DeriveApprodi, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari delle periferie di Houria Bouteldja, attivista politica franco-algerina ed ex portavoce degli “Indigènes de la République”.

Chi lo ha acquistato aspettandosi un libro in stile Athena (Gavras, 2022), tutto estetica del conflitto, commissariati assaltati e musica trap rimarrà deluso, noi che scriviamo invece ci siamo ritrovati molto contenti: il testo di Bouteldja è un’analisi, dalle prime formulazioni marxiane, passando per la storia della Prima internazionale, del Partito Comunista Francese (PCF) e della Confederazione generale del lavoro (CGT), che analizza il rapporto tra organizzazioni di sinistra e colonialismo, e, ancor più in generale tra beaufs et barbares – questo il titolo originale del libro (Beaufs et barbares. Le pari di nous ovvero Bifolchi e barbari. La sfida del noi)  tra proletariato e sottoproletariato bianco, occidentale, e i “dannati”, i colonizzati di ieri e gli “stranieri” di oggi, immigrati in Europa (da una, due o dieci generazioni che siano). 

Cos’è davvero lo Stato razziale

In Bouteldja lo Stato razziale, nel rapporto tra proletariato autoctono e coloniale/ex-coloniale, smette di essere, come fin troppo spesso è rappresentato, anche a sinistra, il prodotto di una cultura arretrata e razzista, e viene descritto per quello che, materialisticamente, è: un’organizzazione politica, sociale e economica che si struttura sulla base della massima possibilità di fare profitto. 

Differenziando lo sfruttamento in varie sacche, e garantendo ad alcuni, gli autoctoni, il “salario della bianchezza”, è possibile, in cambio di tutele minime – e sempre più compresse – sul piano dei diritti civili, nella sfera del lavoro, o anche solo in termini di riconoscimento sociale, garantire una non-alleanza permanente tra sfruttati e super-sfruttati; “la classe, la razza e il genere si sono sviluppati come tecnologie di organizzazione sociale integrate agli Stati moderni nascenti, e sono state messe al servizio delle classi dirigenti per accrescere lo sfruttamento, dividere il corpo sociale, consolidare e riprodurre il loro potere” (p. 36).

Lo Stato razziale produce e/o rifunzionalizza la “razza” (p. 42), costruendo un soggetto non garantito a cui non si deve nulla in termini di tutele ed estremamente concorrenziale. Mantenere questa distinzione, una linea del colore ben chiara e definita, che tagli a metà le classi popolari, assurge dunque a varie funzioni: la razza non è stata “solo una tecnica di espropriazione o di estrazione di plusvalore è anche un’arma della controrivoluzione (…) Era nell’interesse superiore delle classi proprietarie unificare il destino dei lavoratori europei con il proprio, contro una possibile e pericolosa alleanza tra lavoratori europei e schiavi”, così  “il salario della bianchezza diventerà, nelle mani delle autorità legittime, l’arma più temibile della controrivoluzione, formando, tra le classi dominanti e gli schiavi, una classe tampone soggetta a una minore estorsione del plusvalore prodotto. Questa classe sarà quella dei migranti provenienti dall’Europa [il riferimento è qui agli USA] in fuga dalla miseria. I bianchi in formazione” (p. 45). 

Separazione della classe, approfondimento di sfruttamento/espropriazione, costruzione di consenso politico in chiave repressiva a partire dalla costruzione di un “nemico interno” pericoloso e indecoroso: la divisione tra beaufs e barbares non è solo utile, sembra indispensabile al mantenimento dello status quo.

È per questo che dobbiamo trovare il modo di ricomporre questa (artificiale) frattura e osare fare – come suggerisce il sottotitolo originale – “la scommessa del noi”.

Ramy, Davide e gli altri

La storia di Ramy ci ha riportato alla mente non solo quella di Moussa Diarra, ucciso a Verona da un agente della Polfer, ma anche quella di Davide Bifolco, di Ugo Russo, di tanti ragazzini dei quartieri popolari uccisi dalle forze dell’ordine, che sono sì bianchi, ma sono considerati ugualmente scarti. Nessuna storia è uguale all’altra, ma se si vuole pensare all’alleanza, senza rimuovere la specificità del razzismo e della linea del colore, è necessario immaginare anche un’altra identità, un altro filtro, quello di classe, per leggere l’insieme delle vite che non contano, che si possono più o meno impunemente cancellare, che si possono iper-sfruttare e abbandonare. Questi due processi sono due facce della stessa medaglia, due aspetti complementari dello stesso discorso, proprio come lo sono il colonialismo di insediamento e la messa al lavoro della razza: voi esistete perché servite a noi, se ci serve che voi scompariate, allora scomparirete, vi lasceremo morire o vi stermineremo

Ricostruire i legami senza cancellare le differenze: è possibile? È necessario! È un’esigenza che parte da lontano, dal proletariato inglese contrapposto strumentalmente a quello irlandese, dai “poveri bianchi” statunitensi che opprimono gli unici più spossessati di loro, gli ex schiavi della diaspora africana, dai socialisti italiani che cercano, agli inizi del Novecento, un posto al sole per le classi popolari nella guerra di Libia. 

È un’esigenza che può trovare risposta solo a partire dal superamento della logica identitaria neoliberale e dalla rottura del patto razziale, un patto che è ed era unicamente a vantaggio delle classi dirigenti che, in cambio delle briciole, portano i beaufs a individuare nei soggetti razzializzati il loro nemico e concorrente. Questo vantaggio di carattere politico e giuridico rompe l’unità di classe e alimenta la separazione attraverso politiche dell’identità che vedono non solo nel privilegio materiale, ma anche nella conquista di un posto meno in basso nella classifica dei diseredati, il premio per la fedeltà ai dominanti. 

Come mostra efficacemente Bouteldja, i valori astratti di Liberté, Égalité, Fraternité mistificano la realtà concreta dello sfruttamento, citando Robespierre l’autrice ricorda: “Cosa sarebbe la libertà senza il diritto ad esistere?” (p. 82). Il diritto di esistere, di vivere programmando il proprio futuro, il diritto alla protezione e al supporto, a fonti di reddito degne e sufficienti, è qualcosa che negli attuali sistemi democratici e liberali è tutt’altro che garantito.

Sono uguali Ramy e Davide? No, eppure sì. Perché, sia pur in forme diverse, in termini di visibilità e percepibilità anche la classe è una razza – e viceversa – in quanto porta con sé il suo schema razziale immediatamente visibile, nei gesti, negli abiti, nel modo in cui si parla e ci si muove, nei luoghi in cui si vive e che si attraversano: in tutto quel capitale materiale e culturale che viene estorto e a cui si può accedere. 

Quando leggiamo gli assurdi commenti che hanno accompagnato, spesso in maniera bipartisan, il video dell’inseguimento di Ramy Elgaml da parte delle forze dell’ordine, commenti che sottolineano l’impossibilità di individuare i due ragazzi sul motorino come soggetti razzializzati (“portavano il casco”(?) “era impossibile distinguere il colore della pelle”), ci chiediamo se veramente la storia di Davide Bifolco ci abbia insegnato qualcosa. In entrambi i casi si tratta di soggetti per i quali nessuno “che conta” reclamerà giustizia. 

Così come non avranno le prime pagine dei giornali la storia di Patrizio Spasiano, anche lui di 19 anni, primo morto sul lavoro in Campania nel 2025, morto per una fuga di ammoniaca alla Frigocaserta di Gricignano o delle tre vittime dell’esplosione di una fabbrica di fuochi di artificio abusiva prima di Natale a Ercolano, Sara e Aurora Esposito, 26 anni, e Samuel Tafciu, 18 anni. I loro cognomi (uno suona così familiare, l’altro così estraneo) ci raccontano la truffa nascosta dietro al patto razziale. 

Uccidere e lasciar morire sono due cose diverse, certo, in un caso c’è un comportamento attivo, nell’altro un lasciar andare le cose come sono sempre andate. Ma hanno un aspetto, fondamentale, in comune: il non diritto a esistere di qualcuno come premessa di una società basata sullo sfruttamento, di una libertà e di un’uguaglianza che si mostrano nel loro essere solo formali.

Contro l’antirazzismo morale

La costruzione di “un nuovo patto politico di unificazione delle classi popolari” (p. 94) è ostacolata non solo dal discorso apertamente razzista delle destre, ma anche dalla deriva identitaria e moralistica delle “sinistre”. 

“Per dirlo semplicemente, i poteri pubblici hanno sistematicamente scaricato il peso del razzismo strutturale dello Stato francese sul Front National/Rassemblement National e sui piccoli bianchi, cioè rispettivamente sul baluardo del razzismo repubblicano e sugli ultimi della scala del sistema razziale. A questi ultimi è rimasto l’obbligo di ‘ingoiare il rospo’ e il dovere di tollerare il loro vicino ‘di colore’ – un dovere che, è ovvio, non si applica affatto alla sinistra al caviale che si sa essere da ciò dispensata grazie al fossato sociale che la tiene a distanza – mentre l’indigeno li schernisce, radicato nella sua onnipotenza culturale, nella sua fede intatta, nella sua bellezza e nella sua capacità di ribellione (…). Il subappalto del razzismo alle classi popolari bianche è stato accompagnato dalla riduzione al silenzio della loro frustrazione e del loro risentimento” (p. 110). 

Ce lo racconta anche Bauman nel suo La società dell’incertezza: la pretesa che chi paga il prezzo di una difficile convivenza – concorrenza spietata sul posto di lavoro o nell’accesso ai servizi, spazi segregati e fatiscenti, etc. – debba adeguarsi allo sguardo benevolo e “accogliente” di chi guarda da lontano (dal centro, non dalla periferia) è il primo segno di un’analisi ipocritamente umanitaria e in sostanza classista e marginalizzante. Se il discorso xenofobo delle destre attecchisce è anche perché trova supporto e legittimazione nel suo rovescio progressista, un antirazzismo morale che altro non è che “un aggiornamento del patto razziale” (p. 113). 

Negare il risentimento e la rabbia delle classi popolari bianche, di giorno in giorno sempre più impoverite e deprivate, significa non analizzare minimamente le condizioni in cui si trovano a vivere adesso che anche i residui di uno stato sociale che garantiva un minimo di tutele e protezione sono stati quasi del tutto spazzati via. 

Il problema è che questa rabbia non andrebbe repressa né cavalcata, ma riorientata. 

Se le destre sovraniste (da Trump a Meloni, alle ambigue proposte à la Wagenknecht) danno in pasto al proletariato e sottoproletariato bianco il sogno di una rinnovata gloria del proprio Paese nella quale riconoscersi, di un’identità nazionale forte della quale essere parte, fomentando l’odio verso lo “straniero”. Se la sinistra nega moralisticamente il problema, o apre la strada a nuove politiche del decoro, cancellando semplicemente gli ultimi dalla sfera pubblica, del “visibile”. Chi combatte per la trasformazione sociale dovrebbe ripensare quella (legittima) rabbia attraverso lo strumento dell’identità di classe. 

“Gli uomini, bianchi e indigeni, soffrono separatamente dello stesso male, ma sono in competizione tra di loro: gli uomini bianchi contro gli uomini indigeni, si contendono un onore che solo le ideologie più funeste (estrema destra e jihadismo) sono in grado di soddisfare per mancanza di chiarezza politica all’interno di una sinistra che fatica a raggiungerli, impantanata in un progressismo astratto, e lontano dalla realtà” (p. 117).

Sporcarsi le mani, affrontare le contraddizioni, uscire dalla logica identitaria, strappare alle destre xenofobe e alle sinistre progressiste il diritto di scrivere la storia dei “barbari” – ripetendo l’eterno stereotipo del buon selvaggio e del selvaggio feroce – e dei “piccoli bianchi” – razzisti e ignoranti, ormai persi per sempre alla causa – e ricostruire il nostro fronte

Ripopolare il pantheon decoloniale e di classe, di nuove storie, figure e soprattutto pratiche, che alimentino il reciproco riconoscimento e ci tengano assieme, a partire da basi concrete, dalla coscienza che – al di là di differenze sostanziali ma non così profonde da contrapporre gli interessi e le lotte – gli spazi, i bisogni, i ruoli assegnati sono già in comune.

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