Sono giorni concitati, in cui le notizie provenienti dai negoziati fra la Resistenza palestinese e lo stato sionista d’Israele si susseguono senza sosta. La scorsa notte, verso l’1:00 ore italiane, Donald Trump ha annunciato su Truth il raggiungimento di un primo accordo per arrivare a un cessate il fuoco, che fa seguito all’inizio delle interlocuzioni diplomatiche in Qatar, Egitto e Turchia, dopo la presentazione del “piano di pace” statunitense. La notizia ha immediatamente dato il via al rilascio di una gioia in attesa di sfogo da giorni nella Striscia. I social si stanno riempiendo delle immagini della popolazione palestinese in festa, a cui però si associa la continuazione dei bombardamenti israeliani, che sia ieri che oggi hanno colpito Gaza.
Non chiamatela pace
Ora, è importante chiarire che non stiamo parlando di un accordo di pace. L’accordo ha come centro principale il raggiungimento di un cessate il fuoco, che metta fine (per il momento) allo sterminio diretto della popolazione palestinese e consenta agli aiuti umanitari di entrare nella Striscia di Gaza. Il perno per il suo raggiungimento è stato un reciproco accordo sulla liberazione dei rispettivi prigionieri politici. La Resistenza palestinese si è impegnata al rilascio entro 72 ore dei 20 prigionieri israeliani (quelli che di solito la nostra stampa chiama “ostaggi”) ancora in vita e la restituzione dei corpi (ca. 28) di quelli che invece sono morti sotto i bombardamenti dell’IDF. Israele, da parte sua, si è impegnato alla liberazione di ca. 2000 prigionieri palestinesi (di cui 200 condannati all’ergastolo). Rimangono per ora molte incertezze sulla lista dei nomi. In un ulteriore sforzo unitario la Resistenza ha infatti chiesto la liberazione di nomi eccellenti di tutti i gruppi politici palestinesi, fra cui anche, secondo alcune indiscrezioni, anche Marwan Barghouti e Ahmad Sa’dat, che invece Israele non sembra intenzionato a liberare.
Grande incertezza aleggia ancora sul punto di ritiro militare delle truppe israeliane. Fino a due giorni fa, fonti interne all’IDF dichiaravano di non aver ricevuto alcuna indicazione, mentre ieri mattina le notizie sembrano indicare che il ritiro avverrà in due fasi. Sino al rilascio dei prigionieri israeliani l’IDF manterrà il controllo sul 53% del territorio della Striscia per poi ritirarsi in una zona cuscinetto tutta intorno alla Striscia di una profondità ancora da determinarsi (fino a 1.200 metri). Nell’accordo è compresa anche una permanenza temporanea dell’esercito israeliano nella città di Rafah, da cui controllerà il valico con l’Egitto, che – sempre secondo l’attuale accordo – dovrebbe vedere il transito di 400 camion di aiuti al giorno per i primi 5 giorni successivi allo scambio.
Per due anni, facendosi interprete dei desideri di gran parte della popolazione israeliana, Netanyahu ha ripetuto che avrebbe raso al suolo Gaza e sradicato completamente la Resistenza. Forte di un esercito fra i meglio equipaggiati e tecnologicamente avanzati del mondo, l’obiettivo sembrava a portata di mano per Israele. Non è stato e non è così. Gaza ha resistito, con costi umani terribili e sofferenze indicibili, ma ha resistito. In queste ore, Israele sta dovendo fare ciò che i paesi occidentali dichiarano sempre di escludere dalle loro opzioni diplomatiche, cioè “negoziare con i terroristi”. Non succedeva su scala così ampia dal processo di decolonizzazione di Gaza successivo alla Seconda Intifada.
Inoltre, tali negoziati stanno avvenendo e continueranno sotto gli occhi del mondo intero e in coincidenza con un momento espansivo delle mobilitazioni del movimento di solidarietà. In questi due anni di resistenza e genocidio, infatti, i gruppi politici palestinesi hanno raggiunto un altro obiettivo fondamentale: riportare la questione palestinese in cima all’agenda politica internazionale e farne il centro di un movimento di solidarietà popolare ampio e trasversale. Dopo la Seconda Intifada (2002-2005) e l’operazione Piombo Fuso (2014), la Palestina era progressivamente sparita dai media internazionali. Il silenzio mediatico e l’assenza di mobilitazione sono il terreno su cui l’azione di erosione territoriale, materiale, politica e psicologica di Israele può avere la meglio. Lo si è visto molto bene in West Bank in questi due anni, dove – anche a causa della complicità dell’Autorità Nazionale Palestinese – le azioni di protesta e di solidarietà politica e militare con Gaza sono state deboli, mostrando come l’azione israeliana abbia avuto un potente effetto di frammentazione e indebolimento. Inoltre, dall’inizio della guerra in Ucraina, le agenzie intergovernative internazionali ed europee specificamente dedicate all’aiuto della popolazione palestinese sono state progressivamente definanziate, causando un impoverimento complessivo della popolazione. A ciò si aggiunge che gli interessi imperialistici degli USA si stanno spostando dal Medio Oriente al Mar Cinese e Taiwan, cosa che profilava davvero il rischio concreto per la Palestina di sparire da ogni radar. I milioni di persone che in queste settimane sono scese in piazza in tutto il mondo hanno dimostrato che ciò, al momento, non è possibile; e non è certo un caso se questo accordo è arrivato nel momento in cui i governi occidentali sono stati messi sotto particolare pressione dalle proprie opinioni pubbliche – specie in Italia. Non sappiamo ancora come si concluderà politicamente questa vicenda, ma si può certo dire che la Resistenza Palestinese ha raggiunto obiettivi impensabili fino a due anni fa.
Un accordo per il cessate il fuoco, però, non è la pace. Sul futuro di Gaza e della Palestina più in generale aleggia ancora una spaventosa incertezza. Il “piano di pace” presentato congiuntamente da Trump e Netanyahu, se, da un lato, non prevede l’occupazione diretta della Striscia, dall’altro rappresenta niente di più e niente di meno che il progetto di un’occupazione occidentale di Gaza (per una buona analisi del “piano di pace” si veda quanto scritto da Romana Rubeo sul Palestine Chronicle). Le condizioni politiche che propone sono a dir poco irricevibili. Il fatto che la Resistenza le stia prendendo in considerazione come piattaforma di una trattativa, va inteso come un atto di responsabilità nei confronti di una popolazione allo stremo, come esito di un’attenta valutazione delle proprie possibilità sul campo e come capacità di cogliere l’opportunità per fermare la partita militare e aprire quella politica.
Soffermiamoci un momento su come sia stato possibile agli USA e a Israele porre sul tavolo condizioni come la smilitarizzazione delle organizzazioni politiche della Resistenza, la loro esclusione dal futuro politico di Gaza e la creazione di un governatorato con a capo lo stesso Trump, che vorrebbe essere anche intestatario diretto della successiva ricostruzione economica. Queste condizioni fanno infatti apparire Israele in una notevole posizione di forza. Non è a ben vedere così. A parte alcuni aggiustamenti retorici, il “piano di pace” è la copia conforme delle bozze che giravano questo inverno e su cui si era basato il cessate il fuoco di gennaio/marzo. Il che significa che Israele, pur avendo proseguito la guerra contro la Resistenza e il genocidio della popolazione palestinese, non ha ottenuto avanzamenti significativi per mesi; nemmeno con quest’ultima operazione di terra, propagandata ai quattro venti come la conquista definitiva della Striscia.
Allo stesso modo, la posizione di garante degli USA va interpretata in modo sfaccettato. Da un lato, si tratta chiaramente di un alleato di Israele e che quindi di certo non porrà freni particolari al sionismo; dall’altro, però, per il governo Netanyahu e per Israele coincide anche con una forma di commissariamento diplomatico. Gli Stati Uniti si stanno sostituendo politicamente a Israele e impegnando in una zona del mondo da cui volevano invece progressivamente disinvestire. Questo ci dimostra, ancora una volta, come il progetto sionista possa vantare una consistenza e sperare in una possibilità di sopravvivenza per il semplice fatto di essere economicamente, militarmente e politicamente supportato dal blocco occidentale. In questi due anni l’economia israeliana, la sua possibilità di reggersi e quindi la sua capacità di reggere dal punto di vista politico sono state consentite solo e soltanto da un continuo e costante supporto da parte delle economie dell’Occidente, che hanno così materialmente consentito e incoraggiato il genocidio in corso. La Resistenza palestinese non ha affrontato solo Israele, ma tutto il blocco occidentale; così come è tutto il blocco occidentale a essere direttamente responsabile delle atrocità israeliane.
La questione palestinese e noi
È per questo che la questione palestinese è come tale capace di portare alla luce tutti i nodi dell’imperialismo mondiale e della lotta di classe a livello internazionale. La Palestina è capace – e lo abbiamo visto – di far fare un salto di qualità ai nostri discorsi e alle nostre pratiche, molto spesso chiuse in una dimensione identitaria, borghese e bianca. Assumere una posizione politicamente coerente sulla liberazione del popolo palestinese costringe immediatamente a dover dare realtà effettiva al concetto di intersezionalità delle lotte. Pena, altrimenti, mostrarne l’inconsistenza o la limitatezza.
Proprio per quanto appena detto, poi, la Palestina ci ha messo e continua a metterci di fronte ai nostri limiti e alle nostre forze. Le enormi mobilitazioni pro Palestina delle ultime settimane hanno mostrato quanto siano serviti due anni di cortei, eventi, presidi, volantinaggi, dibattiti, interventi e occupazioni per restituire tutta la dimensione politica della questione ed evidenziare come essa non trovasse nelle forze tradizionali (parlamentari e sindacali) rappresentanza alcuna. C’è un vecchio detto che dice che «solo il popolo salva il popolo». E il popolo ha preso posizione. È rientrato nella scena politica, superando la passivizzazione a cui era stato costretto negli ultimi anni. Così, la Palestina ci ha liberati dalla malia dell’inazione e noi possiamo ora usare questa nuova energia liberata al servizio del popolo palestinese e di tutte le altre lotte connessa con la sua.
Eppure, una piccola nota negativa sulle mobilitazioni di queste settimane c’è. Sono arrivate troppo tardi. Sono arrivate tardi perché si trattava di rompere, per l’appunto, un meccanismo di passivizzazione su cui i ceti dominanti e le classi politiche occidentali campano almeno dagli anni ’90. Fuori da ogni retorica spontaneista, i soggetti sindacali e politici, che le hanno animate, hanno dovuto creare una loro legittimità sul tema in due anni di mobilitazione, mettendo a disposizione ogni loro risorsa organizzativa preesistente, prima di poter rappresentare un punto di riferimento per un movimento così ampio e trasversale.
Questo non deve essere un motivo per deprimersi o stracciarsi le vesti, bensì deve farci guardare con estrema lucidità al fatto che l’occasione da cogliere oggi è quella di proseguire in un lavoro di strutturazione e rafforzamento delle organizzazioni politiche radicali e del sindacalismo conflittuale, in modo che si riesca a mantenere aperta quanto più a lungo possibile questa fase di mobilitazione e di pressione popolare sul governo e su tutte le istituzioni italiane. Soprattutto, dobbiamo fare in modo che le energie mobilitate oggi non vadano a vuoto, che il lavoro di costruzione organizzativa prosegua in modo che la prossima volta, allo scoppio della prossima contraddizione del capitale, non ci si impieghi due anni per arrivare a una mobilitazione davvero di massa.
Questo vale oggi ancora di più. Abbiamo già visto Tajani e Meloni ribadire come in questo momento le mobilitazioni fossero fuori luogo, proprio perché siamo entrati nella “delicata fase di scambio diplomatico”. L’aleatorietà, l’incertezza, il muoversi dietro le quinte tipici di una fase negoziale vengono utilizzati come retorica per provare a reinnescare il meccanismo di affidamento su cui è stata basata la strategia di passivizzazione. Per ben che vada, questo atteggiamento vuol dire: “Bene, bravi, avete manifestato. Ora ci pensiamo noi, che muoviamo davvero le leve del potere”. Non è in alcun modo così.
Strada verso la pace non significa infatti strada verso la liberazione. Il fatto che la Resistenza palestinese si sia seduta al tavolo negoziale non vuole assolutamente dire che il destino della Striscia di Gaza sia contenuto nei 21 punti avanzati da Trump. È una mossa strategica dei gruppi politici palestinesi, anche volta a evidenziare il fallimento militare israeliano delle ultime campagne. Al contempo, per quanto social, TV e giornali ci facciano vedere solo le immagini del sollievo e della gioia per il cessate il fuoco, la popolazione gazawa, dimostrando una forza incredibile dopo questi due anni, sta protestando e sollevandosi contro le condizioni imposte dall’imperialismo occidentale. Quella che abbiamo di fronte è solo una tappa in una lotta molto più lunga che non possiamo smettere di combattere; perché il genocidio del popolo palestinese è in corso dal 1948 e perché Israele ha già annunciato che ora sposterà tutte le sue macabre attenzioni sulla West Bank, dove gli insediamenti dei coloni si stanno moltiplicando. Qualsiasi accordo venga alla fine siglato, si chiami “pace” o meno, non rappresenterà ancora ciò per il cui il popolo palestinese lotta da più di 70 anni: la fine completa dell’occupazione sionista da tutto il territorio compreso fra il Fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.
La nostra solidarietà non si può quindi fermare. Anzi, il nostro sforzo va intensificato ancora una volta. Questo significa avere molto chiaro quanto siano fondamentali le lotte che portiamo avanti sui nostri territori, nelle nostre città piccole e grandi, nei nostri quartieri. Significa che, al di là di ogni accordo diplomatico e di ogni esito questo possa avere, la connessione creatasi in questi anni (che c’è sempre stata, solo andava riconosciuta) fra la lotta di liberazione antimperialista dei popoli del cosiddetto Sud Globale e la lotta alle classi dominanti in Occidente va strutturata a livello organizzativo e perseguita in modo organico. Diviene così fondamentale proseguire le campagne per chiedere la rescissione di ogni accordo di collaborazione (economico, militare, diplomatico e culturale), a cui va ora ad aggiungersi la necessità di opporsi a ogni eventuale sfruttamento occidentale del territorio di Gaza. Molte industrie italiane (ENI in primis) non stanno aspettando altro che poter mettere le mani sulle materie prime di proprietà legittima della popolazione palestinese. L’Italia sta già sgomitando per avere un posto nell’eventuale, futura ricostruzione della Striscia e sta legando sempre di più il suo intervento, spacciato per umanitario, alla possibilità di futuri investimenti pubblici e privati ai danni della popolazione di Gaza. Opporsi a questo tentativo significa in primo luogo osteggiare ogni tentativo di imporre un controllo coloniale sulla Striscia di Gaza, sia questo di natura esplicitamente politica o solo economica. Qualora si arrivi effettivamente a una stabilizzazione militare duratura, alle rivendicazioni che abbiamo portato avanti in questi due anni e alla denuncia costante delle collusioni e delle complicità politiche e morali con il genocidio, dobbiamo ora aggiungere la richiesta che il nostro Paese supporti a livello umanitario, economico, diplomatico, politico e intellettuale il popolo palestinese, senza che questo diventi la porta per l’entrata in scena dell’interesse del capitale di casa nostra e occidentale più in generale o un modo per limitarne coattamente la sovranità decisionale.
Non diamo tregua al nostro governo e ai suoi apparati di potere. Non disperdiamo quella forza mobilitativa che la lotta palestinese ci ha consentito di sviluppare. Continuiamo a organizzarci e a creare capacità di trasformazione dell’esistente, affinché un giorno quel potere che oggi dovrebbe essere usato per fermare Israele sia di nuovo nelle mani dell’unico soggetto che è in grado di dimostrare vera solidarietà e fermare la barbarie: la classe lavoratrice organizzata.



